venerdì 21 dicembre 2012

AI
QUATTRO
VENTI

 


Ai quattro venti
Alle loro pari direzioni


All’alba dell’Est.
Scintilla di Fuoco.
Nunzia di luce,
GiallA di sole,
Fresca di Primavera.
Germoglio di vita,
Culla di spirito,
Chiara nel determinare.
Focolare dell’anima.
Lampo di saetta.
Occhi di fanciulla.
 
 Al mezzogiorno del Sud.
Materno di Acqua.
Grondante sudore,
Gravido di frutto,
Rosso di passioni.
Generoso nel donare.
Fluido di sangue,
Caldo d’Estate.
Battito di cuore.
Ventre di madre.

Al tramonto dell’Ovest.
Profumato di Terra.
Antro d’introspezione,
Saldo nelle radici,
Nero di riflessione,
Maturo di sensazioni.
Umido di Autunno,
Concreto di essenza,
Sicuro nel trattenere.
Parola di nonna.

alla notte del Nord.
Ventosa di aria.
Silente di trapasso,
Riflessa di mente,
Pura nel buio.
BiancA di neve,
Gelida d’Inverno.
Aperta nel ricevere.
Immobile montagna.
Profezia di megera.

 
 
Al loro eterno,
vitale ciclare.
Al nostro immanente
fragile stare.

Tra vita e vita
passando per morte.
Da luce a luce
movendo nel buio.
Dal nulla al nulla
cercando il tutto.

Nel cerchio
che tutto unisce
e tutti ci riunisce.


AHO MITAKUYE OSHIASYN

manlio epifania lupogrigio
nel solstizio d’inverno del 2012

venerdì 7 dicembre 2012

tutto fluisce
nell'anno che finisce
Attraversiamo insieme la frontiera di questo anno, passeggiando, mangiando, danzando, giocando, cantando. La tribù di Lupogrigio si mette in cammino verso questo bel cerchio per incontrare altre tribù, altre anime.
  

giovedì 29 novembre 2012

Socrate è occupato e Platone non è raggiungibile…


Pubblico una mail che ho condiviso con la tribù di Ortocircuito di cui molti di noi sono parte, pertanto la rileggeranno…

SOCRATE OKKUPATO
-->
Begli Ortolanti miei, vi racconto una bella storia che accade in questi
giorni e notti a Bari.
Lo faccio nello spazio seppure virtuale del nostro Orto perchè lo credo e
sento sempre più accogliente e disposto a "lasciare il segno". 
Dalla sera di lunedì 26 novembre scorso alle 20,45 il Liceo Classico
 Socrate è stato occupato da circa 60 studenti, per lo più maggiorenni, ma 
con molti minorenni consenzienti.
 Questa avanguardia cosciente, preparata e fortemente motivata, da allora 
tiene occupata la scuola con attività di informazione, studio ed
 approfondimenti sui temi della politica, cultura e informazione ogni 
giorno.
 La partecipazione a questa lotta da parte di mia figlia Martina mi ha messo 
dentro con tutte le scarpe nella faccenda, sin dai giorni precedenti in cui 
li ho visti preparare minuziosamente e coscenziosamente tutta 
l'organizzazione che ad oggi funziona come un orologio. 
Sono ragazze e ragazzi che vivono ogni giorno sulla loro pelle lo strazio a 
cui l'Istruzione nazionale è sottoposta. Sono ragazze e ragazzi che
 s'interrogano e pensano di testa propria. Sono ragazze e ragazzi che ce la 
stanno mettendo tutta per farsi sentire.
 Naturalmente però sono solo "ragazze e ragazzi" non mettono cosce e tette al vento, non ostentano muscoli e ricchezze, non sventolano bandiere e 
tessere di partito, sono dunque niente di più che un moscerino nell'occhio 
di una città, regione, nazione, continente, distratto da tantissime altre
cose ben "più importanti"… Ma sono le nostre ragazze e i nostri
 ragazzi!! Sono la vita che cresce, sono il futuro, il loro e, scusate se è 
poco, anche il presente!
 Oggi, giovedì, mentre scrivo ho saputo che la loro forma di lotta ha 
cambiato leggermente rotta diventando non più occupazione, ma assemblea 
permanente con presidio notturno, ovvero una occupazione che permette però 
ai docenti e personale ATA di entrare durante le ore di lavoro per
 adempiere ad obblighi e scadenze improrogabili. Altra lezione di maturità
 dei nostri ragazzi ed anche dell'Istituzione che consente a loro di 
proseguire nell'autogestione che tanto bene sta facendo a tutti, a chi la
 fa e chi la accetta. 
Sto ammirando emozionato la passione e la fatica durissima che le ragazze e
i ragazzi stanno facendo in questi giorni, una lezione da prendere senza 
battere ciglio. Dormono pochissimo, mangiano ancora meno e lavorano 
tantissimo, spinti solo dall'entusiasmo di potere finalmente mettere mani,
 cervello e cuore nelle LORO SCUOLA. Comunque vada a finire tutto questo è
 una bellissima storia che mi sento di condividere con gli ortolanti.
 Non so se ci sarà spazio e modo di rendere visibile questa solidarietà 
come Ortocircuito. Potremmo portargli un cesto di ortaggi del Circuito per
 cercare di stringere le loro mani così occupate e tremanti, ma sicure e
 pulite.
 Non so neanche perchè questo mio sfogo, ma chi mi conosce lo sa che quando 
mi scappa, mi scappa…


Grazie a tutti per gli occhi e i cuori che ci metterete nel leggere le mie
 piccole parole.

Abbracciao fortissimo


 
P.S.: Ieri notte dei benpensanti aderenti alla sigla "casa Pound"
(fascisti!!) ha cercato di entrare nella scuola e ha bruciato le locandine
 che ricordano l'anniversario dell'assassinio di Bendetto Petrone (28
novembre 1977).
 I ragazzi responsabilmente non hanno accettato la provocazione, hanno 
chiamato polizia e carabinieri che sono riusciti (a quanto so) ad 
individuare e schedare 'sti stronzi!

giovedì 25 ottobre 2012

ANIMANI

ANIMANI

Ho sul comodino un piccolo libro dal titolo per me molto intrigante “L’anima nei piedi”. Il suo contenuto poi no, un mieloso finale inquina il racconto di un viaggio in una tribù indioamericana, con molte belle descrizioni di loro cerimoniali e personaggi, ma che l’autrice ha, ai miei occhi, travisato riportando tutto e solo a sé. Ma come critico letterario io sono peggio di lei come scrittrice e allora lasciamo perdere. La cosa vera è che più di tutta la narrazione il solo titolo mi ha raccontato e fatto riflettere. Spostare l’anima nei piedi è un bell’atto per noi occidentali, spesso chiesizzati, e spessissimo cardiocentrici o cerebrofocalizzati. Mettere l’anima nei piedi: ad un tempo riconoscere le nostre radici e la capacità di muoverle, quello che ci lega alla terra è lo stesso che su di essa ci permettere di andare. Bella e intensa metafora che gli Indiani d’America insieme a tutti i popoli nomadi conoscono bene. Dovremmo farla nostra. Ciò nonostante il bello di questo titolo è come mi abbia portato a pensare a me, a dove colloco io l’anima mia e altrui.
La risposta è che per me l’anima è nelle mani.
Non mi sento sufficientemente nomade da vederla lì, sotto le caviglie, pronta a sostenere e muovere tutto il peso della persona, e non solo quello fisico. Meglio le mani, mobili, leggere, capaci o al contrario ferme, pesanti e inabili, ma pur sempre espressive, per me. Sento che le mie di mani portano la mia anima, la racchiudono a volte, la spingono fuori, altre. Le mie mi ricordano quelle di mia nonna e di mio padre. Un albero genealogico “a portata di mano”. Le estremità della madre di mia madre erano una poesia, commoventi nella loro contorsione, scolpite dall’artrite e pur sempre in moto. Erano, sono, al presente come tutto ciò che i genitori ti donano, il segno stesso della vita e non solo la sua, ma quella di tutti noi, giacchè da lei tutti noi dipendevamo, ma senza pesantezze o obblighi, nella maniera delicata e amorevole che la sua anima era capace di trasmettere. Se lei cucinava la tavola era una festa, se lavorava nei campi avevamo qualcosa da scoprire, assaggiare, toccare. Tutta la mia vita da bambino è passata attraverso le sue dieci piccole e fortissime dita. Mani generose di anima accogliente.
Anche le mie ora vanno verso quelle piegature. Come le sue hanno nocche rigonfie e falangi eterodosse, poco inclini all’incolonnamento e come quelle sono sempre in attività.
Di mio padre porto il disegno a rilievo della geografia venosa che riporta l’esausto sangue bluastro, dalla periferia al centro pulsante e rigenerante, per un altro ennesimo giro di quella giostra vitale che è il nostro sistema circolatorio. Mi ricordo che ammiravo e desideravo quei cunicoli violacei affioranti sui dorsi delle sue mani. Non le ho mai viste strafare, nel senso della pura fatica, ma erano comunque sapienti, adatte. Dai pennelli alle stoviglie. Un ottimo uomo, un grande padre e una grande anima certamente, quella del genitore migliore che mi potesse capitare e in quelle sue mani ci stava tutto questo suo fascino.
Le altre mani importanti sono quelle di mia madre, ma qui il ricordo si fa opaco, annebbiato dalla immagine delle sue spesso ferme e gonfie a palloncino, nel gonfiore di una terapia endovenosa che dilatava tutto ciò che incontrava. Gonfie di dolore direi oggi, come la sua anima, ferita ma vitale.
Di tutte questa mani ricordo le carezze, tenerissime quelle di mia madre, rarissime e perciò preziose quelle di mio padre, ossute e accudenti quelle di mia nonna. Ma non è solo per questa antologia della rimembranza che colloco l’anima di ogni donna e ogni uomo nelle sue mani. È che l’atto di toccare, tatteggiare, prendere, lasciare, racchiude tutto il profondo di ognuno di noi. È lì che poso gli occhi, altri veicoli dell’anima, quando incontro una persona e non solo la prima volta ricavandone l’impressione che spesso è la definitiva, ma sempre ad ogni incontro, perché ogni istante è diverso dall’altro, si cambia e le mani questo lo dicono bene. Difficile barare con loro.
Ripenso alla storiella che mio nonno raccontava a noi nipotini per lasciarci, credo, un briciolo di sapienza. A detta sua quando saremo al cospetto del giudice massimo dovremo mostrargli il palmo delle mani, solo così sapremo se imboccare la porta del paradiso o quella dell’inferno. Tu gli dici il nome e giri le mani, lui guarda e tocca, se hai calli si apre la porta luminosa e ariosa, se hai mani liscie da scansafatiche, si apre il portoncino buio degli inferi, con tutto il suo fetore e calore.
Oggi e solo oggi a mezzo secolo di distanza, colgo l’insegnamento che minuscolo allora non intendevo. Se allora il senso cattocristiano spostava tutta l’attenzione sul valore salvifico del sacrificio oggi sento che l’atto di leggere nelle mani lo spartito della propria musica interiore attiene ad una idea alta di consapevolezza e conoscenza di sé e dell’altro. Qualcosa che travalica gli stretti confini d’una cattolicità imposta, dogmatica e asfittica della quale possiamo bene fare a meno. Quel Dio cristiano di allora è oggi per me la traduzione di un occhio attento posato sull’essenza di un essere e la sua capacità di esprimerla.
Se l’homo faber è tale lo deve proprio alla sua capacità di usarle quelle mani. Attraverso di loro esprime quell’anima che lo distingue dalla bestia. Riconosco che può essere una concezione superata, ma me ne servo per raccontare quanto io senta anima-te queste estremità. Del profondo di chi le possiede ne hanno la forma e il contenuto. Io le mie me le martirizzo continuamente con quell’atto compulsivo di scrocchiare le nocche che fa venire i brividi a più d’uno. È il segnale di un disagio, a volte il tormento, che mi accompagna. Una convivenza non semplice che questa autopunizione chiaramente esprime. Ripenso alle mani delle persone che mi sono vicine e di come in ogni paio di loro veda riflesso con chiarezza il profondo del suo essere e come con questo dizionario legga anche le mani incontrate per caso o appena sfiorate cogli occhi.
Certo c’è chi le mani le usa per mestiere e chi invece può o deve farne a meno, ma questo è altro. Equivale all’abilita usura e idoneità di uno strumento, di un arnese al suo scopo. Le mani che cerco e trovo io sono altre, prescindono dall’essere capaci o no, cerco la trama di un discorso che a volte dice l’opposto della lingua perché non risponde ad impulsi raziordinati, ma compone, spesso dirige, quel complesso sistema segnico a cui tutto i nostro corpo ricorre per esprimersi, nonostante noi. Basta “solo” saperlo leggere.
Cos’altro sono le carezze di una madre al proprio figlio se non l’esplicitazione di un incontro tra profondità, uno scambio d’intimità che non potrebbe avvenire altrimenti. E quanta nobiltà nelle usuali strette di mano. Una forma di allaccio che richiederebbe più riflessione. A tutti ripugna la stretta liscia e molliccia giacchè prefigura una personalità poco affidabile, sfuggente, senza spessore. Come dire che c’è poca anima. Altrettanto allarme procurano strette eccessive, ostentatamente vigorose o prolungate. In queste ci leggo l’equivalente di una corazza entro cui mascherare e proteggere debolezze d’animo inammissibili a sé stessi. Due amanti, se tali sono, ovvero due participi presenti del verbo amare, partecipi e presenti a ciò che esprimono, potrebbero stare ore solo a scambiarsi carezze, toccamenti e sfioramenti di mani e di anime. Per me l’atto più intimo a cui tendere. Una sacralità e un valore che i nostri contadini conoscevano bene allorquando suggellavano patti importanti con una “semplice” stretta di mano. Gli atti notarili possono essere riscritti, fraintesi, ignorati o impugnati, una stretta è per sempre, è l’anima, quella alta e nobile che è in gioco.
Anche quando scorgo il corpo inesatto, dai movimenti incoerenti di un diversamente abile, allorquando lo stare vicino supera il livello della distrazione superficiale, subito ne cerco le mani con la vista e, se posso, col tatto. Rivedo F. inchiodata sulla sua rossa sedia a rotelle da una assoluta incapacità di fare altro, vedo le sue mani carnose che come farfalle cercano l’aria e il contatto con gli altri. Le ho sentite morbide e forti insieme, ho percepito la bellezza e la disperazione della sua anima a dispetto di una esteriorità tanto difficile da decifrare.
Cristo fu inchiodato nei piedi e nelle mani per ammutolire la sua anima. Certo era quello il rituale punitivo più crudele all’epoca, ma in quella mutilazione c’è tutta la paura del debole che nell’andare dei piedi e nel fare delle mani intravvede la forza di chi avrebbe potuto definitivamente scoperchiare il falso che proteggeva il suo assassino. Una vera e propria ammissione di inferiorità. Le posture di preghiera e invocazioni più antiche vogliono le mani come antenne di ricezione di segnali che dal macro profondo raggiungono il micro profondo di ognuno.
Insomma ci sono molti argomenti che che mi inducono a credere che ciò che istintivamente solo percepisco possa avere un briciolo di fondamento. Intanto è vero per me e tanto per ora mi basta.
Continuo, proseguo a cercare anime e ad incontrare mani. Devo onestamente ammettere che mani segnate da esperienze, fatiche o sofferenze sono per me più eloquenti che non intonse estremità senza tracce. Le prime comunicano ciò che le altre negano, però c’è anima anche in queste. In fondo anche il gesticolare intenso e spesso biasimato di noi mediterranei, che tanto ci accomuna alla comunicazione più spontanea e calda dei popoli del sud del mondo, esprime meglio quell’anima che genuinamente emerge e che non ce la fa a starsene buona nelle maglie del bon-ton. A dispetto di posture educatamente composte il cui scopo è solo quello di raffreddare la relazione e ingabbiare le anime, la cui grandezza e spontaneità ci sgomenta perché inacapci di mostrarci nudi per quello che siamo.
Trovo incantevoli le manine dei bambini, quelli piccini piccini, la loro voglia sfrenata di toccare, conoscere afferrare. Parlano molto prima delle loro lingue e molto di più, esprimendo la mobilità di un’anima nuova, genuina, immediata. Eppure nonostante tutto questa pretesa lettura delle mani diffido molto di “lettrici o lettori di mani” professisonisti, come non credo più tanto nei codici di lettura e interpretazione in genere (qualsiasi codice) perché imponenti una visione univoca laddove di unico e definito non c’è nulla. Quello che nelle mani mi colpisce è l’aura che le circonda, qualcosa che è aldilà e aldiquà della lunghezza della sua linea della vita.
Chissà se l’ossequio mafioso “baciamo le mai” ha qualcosa a che fare con tutto questo.


venerdì 12 ottobre 2012


STRASCINATI FORTUNATI


Ingredienti:
Cappelli, il Senatore, e le sue rare e antiche spighe semolate fini. Arricchite di radi svolazzi di proteine farfalliniche.
L’alba e la sua luce magica, portatrice di energie vitali.
L’amicizia, l’unico sentimento che ti lega lasciandoti sciolto.
L’acqua del rubinetto, il sale del mare, il legno della madia, la fame della pancia.
Fortuna Q.B. (quanta bellezza), per insaporire il tutto.

Procedimento:
A volte ci vuole Fortuna e il sano coraggio di ammettersela. A me sono capitati entrambi. Riconoscersi al centro di una congiuntura favorevole non è sempre facile, presi come siamo dall’esercizio pignolo e costante delle litanie dei nostri guai. Lamentare disgrazie, impossibilità, avversità e negativismi viene più facile che aprire gli occhi ai flussi positivi che comunque ci attraversano ma che non siamo più capaci di riconoscere. È un piccolo atto d’umiltà che però ci ricompensa con una enorme dose d’interessi.
Un’amica che regala abbondanti chili di pregiata semola biologica, della pregiata cultivar “Senatore Cappelli”, è una fortuna.
Un amico che raccoglie il dono e lo condivide con me, sapendomi capace quanto lui di non lasciarsi intimidire da date di scadenze e lotti di produzione, utili alla circolazione dei capitali, non dei saperi e dei sapori, è una fortuna.
Un’amica che ti passa parte del suo prezioso Lievito Madre centenario con cui stimolare la crescita di un ottimo pane, è una fortuna.
Un amico che mette in circolo ottimo vino biologico, frutto sanguigno di terre manduriane, è una fortuna.
Una donna che ama sapori, odori, umori e piaceri forti, pronta ad esserci tutte le volte che l’occasione lo merita, è una fortuna.
Una figlia che più figlia non si può, maggiorenne quanto basta per metterti sempre in un meraviglioso disagio da inadeguatezza, è una fortuna.
E tanta Fortuna và assecondata, cullata e alimentata, tanto da lasciarsi poi trasportare. Così, con questo paniere traboccante è bastato poco per una ricetta gustosa e, restituita la libertà ad alcune farfalline che l’involucro imprigionava, ho mescolato piano l’acqua con la gialla semola, su cui ho nevicato poco sale. L’approdo previsto, suggerito da chiacchiere amicali la sera prima, era la pasta fatta a mano nella misura e forma degli “strascinati”, una sorta di cavatello strisciato a tre dita invece che uno solo. Quelli che nell’apparentemente arida nostra murgia chiamano “minghiariìdd” e nell’arso salento “capunti”. Una bella, callosa e succulenta coppettina di pasta atta a raccogliere intingoli sugosi, dai ragù alle zuppe.
Lo stimolo verso questa pastificazione è partito proprio da lei stessa, la semola del Senatore che, giunta a casa portata per mano dal monello amico, ha iniziato a soffiarci nelle orecchie acquolinosi suggerimenti e siccome si sa: “l’occasione fa l’uomo sano” (Lupogrigio), la parte più sana di me ha raccolto la spinta e mi ha risvegliato ad alba appena sorta, per procedere con gli impasti. Già, gli impasti plurali, perché oltre quello per gli strascinati c’era da portare a compimento anche quello del pane che, impastato la sera prima di coricarmi, mentre nella pentola di coccio pipiava un sapido ragù di cavallo, con farina per metà integrale e metà banale oltre una buona manciata di lievito madre, monello anche lui, aveva sfruttato tutte le poco più di sei ore di mio riposo per raggiungere una forma ed un aspetto tale che non ho avuto più il coraggio di procedere al secondo impasto. Appena mi ha visto, liberato dai suoi canovacci protettivi, m’ha chiesto gentilmente d’essere lasciato così, e così ho fatto, l’ho introdotto nel forno alla massima temperatura ringraziandolo con una incisione a croce sulla sua guancia gonfia.
E mentre il calore ingravidava la forma molle d’acqua, farina e lievito, tramutandola in croccante crosta e  consistente mollica, io inumidivo la collinetta di semola che avevo alzato sulla madia. Il sole autunnale spuntava appena dietro le sagome senza stagioni dei palazzi, mentre io spingevo i polsi nell’impasto per addomesticare i granuli sottili di gialla semola di grano duro verso un impasto liscio, compatto ed elastico, da cui strascinare la pasta. L’atto trasformativo che dalle polveri porta all’impasto elastico ha un gusto magico per me, per questo ci gioco tutte le volte che posso. Questo della pasta poi è un gioco serissimo perché è quello che ho imparato silenziosamente guardando le mani e le braccia di mia madre e di mia nonna, le Donne della mia vita, attraverso le quali so tutto quello che so. Il loro ritmo semplice e solenne, la loro precisione naturale e amorevole mi hanno regalato molto di più di quanto potessi mai credere, in cucina e dappertutto. Quando vedevo tirare fuori dalle scansie la madia, seguita dalle farine e le semole, poi l’acqua, il lievito i matterelli, capivo che era tempo di piaceri. Il mio, il loro e di tutti quelli che avrebbero insieme gustato il risultato di tanto amore. Questa lezione mi appartiene e me la tengo stretta. Da loro, senza mai chiederglielo direttamente, ho imparato la gestualità istintiva che riduce una palla di impasto liscio e sfuggevole in un serpentello non più largo di un dito. Un movimento che mentre arrotola stende, senza forzare pena la rottura. Piano piano, carezza dopo carezza, il cilindretto si riduce di diametro e si allunga sulla madia costringendomi a riportarlo in volute che ricordano le anse di un grande fiume, un fiume di pasta da cui poi, con gesti anche questi mandati a memoria, staccare a lama di coltello i segmentini da strascinare. Per gli strascinati la misura è quella di tre dita e ognuno ha le sue con cui spingere nel rametto molle, tirando verso il cuore cosi che l’impasto si arrotoli su sé stesso, lasciando la parte liscia all’esterno e la conca rugosa nell’intimo, lì dove si depositerà il condimento, imprigionato dalle microrilevatezze dovute all’attrito tra polpastrelli, e legno. Un miracolo di ingegneria pastaia che nessuno ha mai progettato, ma tantissimi hanno gustato. Così facendo e pensando ho proseguito sereno, mentre il pane cresceva e marronava nel forno a cui, dopo la prima mezz’ora, ho attenuato la temperatura per non scottarlo e lasciare penetrare la cottura sino al centro. Il tempo in certe occasioni non ha peso e si dilata raccogliendo tutte le energie che a lui riesco a regalare. Il sincrono con cui ho terminato di strascinare e ho estratto il pane ormai cotto ha sancito la giustezza della occasione che evidentemente richiedeva altrettanto giusto compimento. Niente di meglio che imbandire una tavola su cui celebrare il rito antico e moderno della convivialità, quella vera e amorevole, appassionata e sincera, così ho chiamato a raccolta le persone che la Fortuna aveva messo insieme già la sera precedente e che insieme avevano scaturito tanto desiderio, sicuro che con loro la festa sarebbe stata grande, non clamorosa e rumorosa, ma quella bella, intima e importante che unisce e rafforza, legami ed appetiti. Con l’Amico, la Donna, la Figlia ci siamo lasciati accarezzare dal gusto degli strascinati, ognuno dei quali portava in seno una bolla di ragù scuro-rosso-piccante, tanto da necessitare un sorso di quel vino scuro-rosso-eccitante che svuotava i bicchieri. Con i brandelli del pane mattutino abbiamo infine compiuto l’antico fondamentale rituale di sbiancatura del piatto, attenti a non lasciare traccia di rosso alcuno, quasi a volerne evitare il lavaggio, per prolungare il piacere di quel bello stare insieme a bocca e anime piene. Non restava che brindare alla Fortuna, l’invitata più importante a questa tavola fatta di sapori, saperi, odori e umori famigliari, di quella famiglia che si sceglie e non si subisce. Nella realtà non abbiamo alzato i bicchieri nel gesto classico e formale, non ce n’è stato bisogno, il brindisi vero l’abbiamo fatto nelle anime che la Fortuna aveva fatto incontrare.

martedì 2 ottobre 2012

Lupogrigio andò al mercato e una triglia si comprò…

 Anche le triglie mentono,
se sanno di menta.

Chi frequenta i nostri mercati rionali lo sa, sfuggire alle grinfie dei mercanti è arte difficile, una disciplina che richiede palestra e training da primato. Loro, i mercivendoli, che siano di terra o di mare non differisce, sanno sempre come arrotndare all’insù le spigolosità della tua spesa, non solo, sono professori d’insistenza e docenti d’insolenza, capaci come sono di farti sentire pezzente se non riempi le tue sporte sino a scoppiare delle loro “prelibatezze”. Avvicinare i loro banchi equivale ad un incontro di judo, devi schivare i colpi restando in piedi provando a schienare l’avversario, allontanandotene rapido prima di beccati un altro colpo, magari basso.
In questo scenario da lotta all’ultimo sangue mi sono tuffato un sabato di questi, che di prefestivo l’euforia  da mercato sale, di qua e di là dai banchi. Una vera e propria epopea cavalleresco-mercantile. Il mio intento, illuso e meschino, era di uscirmene vivo con una sola vaschettina di cozze sgusciate per un tranquillo spaghetto marinaro. Illuso, l’ho detto! E complice, già, perché pur avvistati i mitili, ho tirato diritto verso altre prelibatezze che la stagione prolungata, generosa offre a chi ne sa e vuole approfittare. E così, dopo un doppio slalom tra carrozzini, carrelli, bustoni e posapiano, poso l’occhio su una montagna di triglioline rosate che esondano il pur grande banco che cerca di contenerle. Volevo cozze e trovo triglie, in più il prezzo richiesto era a dir poco magico: con soli due euri (meno di quattromila di vecchie monete) ti portavi a casa un chilo di pescioletti grandi non più di un dito, una squisitezza senza pari, la cui freschezza, qualora ne dubitassi, è subito certificata da un passante che senza pensarci ne afferra un paio e le fa sparire in bocca socchiudendo gli occhi. E io che aspetto?!... mi avvicino e penso di chiederne mezzo chilo che per i miei invitati, io e mi figlia, sono più che abbondante porzione. Ma la palestra di cui prima, l’allenamento e anche un po’ di golosità mi hanno fatto pronunciare:”un chilo.”, mentre il pescivendolo già aveva, con le sue manone spugnose, svalangato nella bustina quantità soverchie di trigliozze. “Un chilo?” mi intima, quasi ad impallinarmi col suo rimprovero, e a rincarare la dose a me mentecatto incalza: ”facìm du chil!” (trad. acquistane almeno due di chili di questo meraviglioso pesce che di meglio non trovi…” Io zitto rimugino che 2+2 fa 4 e quello da me sicuramente vuole tutti e 5 gli euro di carta che io posseggo, così pensando rispondo con un sorriso da campione del mondo di ipocrisia: ”ma no, sono solo per me, quindi bastano.” L’ago della bilancia supera di poco i mille grammi (il “buon peso” è una delle tecniche blanditorie più diffuse e moleste su queste bilance, la cui precisione è tutta da provare, ma fa parte del copione e the show must go on). Lui ora chiude la busta, intasca il corrispettivo e mi porge il pesce. Fiiuuu! Ce l’ho fatta! Oggi frittura di agostinelle tardive oltre agli spaghetti con le cozze che compro poco più in la dove le avevo sbirciate prima e dove le trovo però più care del previsto. Ma il bello è la schermaglia verbale che il venditore accende quando gli chiedo conto del perché del sovrapprezzo, allorché tenta di convincermi che quella misera vaschetta oggi e solo oggi contiene una quantità di mitili sgusciati quasi doppia del solito. Come dire che mi spiegava il miracolo della cozza per cui nel contenitore solido e sigillato si sono materializzati magicamente tanti frutti di mare che non ci posso credere. E io non ci credo, ma pago e me ne vado che ora ho fretta.
Tutto questo per dire che per quanto squisiti e irresistibili fossero i pescetti, decapati, infarinati, fritti, salati e mangiati bollenti con tutte le lische (“scorz e tutt per noi baresani) non siamo, in due, riusciti a finire la porzione, e da qui parte la ricetta.
La sovrabbondanza alimentare, come ho imparato da mia madre e mia nonna, non và mai cestinata, c’è sempre una seconda vita possibile che spesso è più gustosa della prima originaria, ancorché inattesa. Così per le fritture di mare che tanto ottime sono ustionanti d’olio quanto saporite rinascono da fredde, appena marinate e magari aromatizzate. Fanno impallidire anti e post pasti ben più ricercati.
Così le ho limonate abbondantemente e altrettanto cospicuamente cosparse di coriandolini di menta appena spiccata dal vaso sul balcone, con le mani e senza metalli aggiunti. Il verde della menta in frantumi s’inframmischia al rosa ora dorato della frittura, come un pois psichedelico e rilascia un profumo mentoso che attorciglia l’asprigno del limone in una danza olfatto-gustativa irresistibile. Ma non mi lascio sedurre, ora. Ripongo tutto nel frigorifero che con la sua algida accoglienza rende il tutto inenarrabile, ma da provare assolutamente. Così ho fatto io il giorno dopo e quello appresso pure, che più sta meglio è. E spruzzando altra micromenta sopra, la triglia ha mentito come solo lei sa fare. E buon appetito.

martedì 25 settembre 2012

cous cous

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In occasione del III° COU COUS FEST tenutosi il 23 settembre scorso nella tana di Orso Guercio e Luna Secca, Lupogrgio ha partecipato con una ricetta fatta di parole. Il suo sapore si acoltava e non si ingoiava.
Provate anche voi.


Cous cous


Cous cous, cuscus. Mi piaci. Mi piace il suono che hai, il sapore buono della baresità nella quale mi riconosco. cuscus, questoquesto. Mi piace il tuo colore d’oro e sole. Sapore di calore d’estate di sud. E anche qui mi sento a casa. Mi piace il tuo profumo ricco di spezie evocanti. Viatico verso orienti sconosciuti, a me, ma desiderati. E così m’immagino di cavalcare il tappeto volante dei minuscoli tuoi grani profumanti, verso Marrachesh o Casablanca o Il Cairo o… Mi piace il tuo sapore, neutro e accogliente, materno. Una madre perlinata e dorata che accoglie una prole di sapori ai quali restituisce gusto e sentore. Uno per uno. Una per tutti. Mi piacciono le tue confezioni ammiccanti dagli scaffali di vendita delle nostre urbe occidentali. Come delle cartoline souvenir di paesi esotici. In genere semplici, naif, ma proprio per questo ancor più accattivanti, ammalianti, invitanti. Quando ti raccolgo dalle schiere militarmente ordinate di moderni scaffali è come se mi portassi a casa quel pezzo di Asia minore o di Maghreb che riesco a sognare. O, per meglio raccontare, è come se tu mi prendessi per mano per accompagnarmi lì da dove sei arrivato. E se poi leggo sulla scatola che sei di Francia o d’Italia non importa, è l’evocazione che mangerò, non la materia.
Come tutte le cose di valore, quello vero, sei maiuscolo nel tuo essere minuscolo. Un frammento di Storie, di Culture, di Passioni, che apre il portone dei loro universi a chi ci vuole entrare. In ogni tua minuta perlina riverbera tutto l’universo che ti appartiene. E mi piace pensare che “mi” appartiene. Mi affascina immaginare le migliaia di migliaia di mani che ti hanno accarezzato, incucciato, sgranato come un rosario laico e prosaico. Ecco cosa sei, una preghiera da masticare, una orazione da ingoiare, una invocazione da digerire. Le mani dicevo, mani di donna carnose e morbide, ma anche nervose e callose, ma buone, capaci, come solo certe donne sanno essere. Quelle che se un uomo l’incontra non dimentica. La donna e il cous cous. Nel mio profano e occasionale incontro con la tua granosità c’è forse il desiderio di accarezzarle quelle mani, ma questo è altro discorso fatto di desideri e appetiti intimi, e ognuno ha i suoi.
E poi suoni, le tue scatole di cartone per lo più grezzo, vibrano come come maracas saporite, a scandire un ritmo lento e suadente e sudante. Un ritmo di cos cous. Lento come la tua preparazione, quella vera, naturale, natale, non quella precotta, globalizzata, occidentalizzata, snaturata. Perché il Tempo è ingrediente curciale per te, il tuo sapore, il tuo profumo. Come tutte le cose buone, ancora di più quelle buone che dischiudono labbra affamate, lo scorrere naturale del tempo racchiude un valore insostituibile. E tu hai, meglio, vuoi il tuo tempo, fatto di cura, attenzione, concentrazione, passione che solo se donata sarà restituita. Ma questo chiunque abbia avuto a che fare con l’Amore lo sa. Con le pentole e i loro calori, cogli ingredienti e le loro morbidezze. Come una madre col figlio. Un’amante con la compagna. Maradona con il pallone.
E non siamo ancora arrivati alla tavola, siamo ancora al petting preliminare, che però già pregusta l’amplesso dei sapori che ne discende. È qui si gode.
Portare alle labbra e poi accarezzare col palato, mordicchiare coi denti, lasciare penetrare l’esofago e colmare lo stomaco del tuo gusto buono, ricco, molteplice, morbido e delicato è un atto di puro piacere. Credo, anche se io non ne sono capace, che rispetto vorrebbe che ti fosse dedicato tempo altrettanto lento alla degustazione quanto quello occorrente alla preparazione e non che finissi trangugiato come puro riempibocca. È la differenza che passa tra una notte d’amore e una sveltina meretricia. Ma nonostante me lo dica e me ne accorga, a tavola continuo a fare sveltine sognando notti di passione, malato come sono di gastrimarchia. Ma questo è uno tra i tanti miei limiti.
Ritorno a te cous cous, che ora sei in tavola, fumante, odorante, colorante. Ti guardo e sogno i tuoi orizzonti, l’ombra delle tue palme, la carezza tiepida dei tuoi scirocchi e con questo immaginare avvicino le mie labbra ai tuoi grani oramai gonfi di liquidi amorevolmente curati, mi lascio prendere dai tuoi racconti. Ora mi parli di terre arse dal sole coi suoi frutti sapidi e colorati, e poi cambia il paesaggio e il tuo amalgama odora e sapora di mari, vicini e lontani, di salsedine e salmastre avventure. Ancora eccoti addolcito dalle insistenze zuccherine degli acini appassiti a solleoni sudosi, inframmezzati da sgranocchie essiccate.
Un arcobaleno, una deflagrazione di sapori che solo tu sai contenere e restituire con tanto amore e gentilezza e al tempo stesso con risolutezza. Mosaico di odori che, come vetrate gotiche, rifrangono vibrazioni multicolori attivando il segnale d’estasi al cervello. Questo sei tu cous cous per me. Per questo ti cerco, ti preparo, ti accudisco, come posso, senza vanaglorie o ambizioni, soddisfatto anche solo dal saperti con me, nella mia dispensa reale e dell’anima, per nutrirmi, ogni volta che ne ho desiderio, della tua infinita minuscolità. Mi piaci.

martedì 11 settembre 2012

Della serie ricette eccitanti, da provare e riprovare. Parola di Lupogrigio.
Se volete mettete a nanna i minori e se no che se la godano anche loro.
 

POPIZZE GODURIOSE
V.M 18

Mi rendo conto o, secondo la lingua della Benemerita, “avendo contezza” che le mie ricette (parolone per una serie di pensieri in libertà tra fornelli e fardelli) hanno il limite della occasionalità, unicità, irripetibilità. Però i limiti oltre che sagge guide sono anche frontiere da attraversare e allora l’invito è: Fallo!
Questa volta non so se le parole colmeranno il capasone d’emozione, umori, sapori che l’occasione ha generato. Che già gli ingredienti sono eccezionali, frutto cioè dell’eccezione, di istanti colti nel momento in cui s’avverano.
Gli ingredienti, dicevo, il principale è il Desiderio. E già qui potrei dilungarmi sino a rendere barbute anche le gote d’una quindicenne. Perché il Desiderio và innanzitutto riconosciuto dentro di sé e materializzato fuori di sé. L’operazione non è semplice come pare perché non parlo di semplice “voglia di”, ma del riuscire a dare parola alla parte spesso più sopita di sé che stenta ad emergere se non attraverso strettoie, labirinti e oscurità, uscendone smarrito, distorto, negato. E il desiderio di un sapore sfizioso, apparecchiato da me medesimo e addirittura impastato s’è andato formando nella mia mente mentre esaudivo altro desiderio, quello d’un bagno settembrino sino allo sgocciolare dorato dell’ultimo sole che di questi tempi a queste latitudini riesce a “fare impallidire” anche le migliori pubblicità tropicali. E così mentre mi beavo delle tepide onde e delicato sole ho aperto la finestra delle voglie ed è emersa quella di frittelle di pasta cresciuta, pittate di bianco-ricotta-forte o di rosso-pomodoro. Ho desiderato così di rientrare a casa, ma piano, mollemente come il clima interiore ed esteriore suggeriva. Ho preso colla mia macchinetta la strada del mare, non l’impersonale, efficiente, rumorosa tangenziale, ma l’imperfetto nastro camionabile che affiancando il mare permette di vederlo e, se hai tempo e voglia, anche di osservarlo. Cogliendone colori, odori, mosse, fremiti e ampiezze altrimenti negate. Col giusto ritmo e nel giusto tempo sono arrivato davanti alla coppa in cui ho versato poco oltre mezzo pacco di farina bianca mescolata con l’acqua intiepidita e intorpidita dal panetto di lievito di birra che ci ho sbriciolato dentro. Una manciata generosa di sale e un pizzico avaro di zucchero hanno fatto compagnia agli altri e tutti insieme, smossi dal forchettone di legno, si sono tramutati in un ammasso molle, cremoso e bolloso che già faceva presagire i risultati. Per aumentare l’effetto piacere ho tirato fuori dal frigo, a questo punto, il vasetto di vetro con “la reliquia”. Già perché di questo si tratta. Della traccia prodigiosa di una scoperta benedetta da San Biagio d’Ostuni in persona, anzi in monastero. Questa crema velluata d’un bianco appena, ma appena giallinato, delicatissima nel suo gusto acido e decisissima nella sua persistenza sapida deriva da un viaggio alla scoperta del santuario del protettore della gola che s’inerpica lungo le coste d’una gola, appunto, che dà le spalle alla terra ostunese e la faccia alla piana fasanese. Un posto che trasuda magia ed emozione, storia e geografia, anime e corpi. A guardiano di cotanta ricchezza, una masseria delle nostre, grande e austera, per niente ritoccata da mani distruttive di restauratori che ben altro dovrebbero fare che non omologare ogni architettura che incontrano alle immagini patinate del loro depliant mentale. Questa è bella antica e vecchia, neanche tutta bianca, ma di faccia rossa con contafforti ocra, posta a cavallo della dorsale della murgia ostunese da cui si guarda e si domina un paesaggio che solo l’angolo di visuale dei nostri occhi può delimitare. Nelle stanze vive e non imbalsamate di questo scrigno, dopo aver sudato e salutato il monastero di Santo Biagio con tutti i suoi benefici effetti, ci siamo lasciati conquistare dai formaggi che gli inquilini ci hanno portato, senza insistenza, anzi con una certa ritrosia che rispetto ai convenevoli affettati e odiosissimi dei nostri spacci alimentari sono come il giorno e la notte, uno è luce, l’altero è buio profondo. Di sincerità.
Ritorniamo alle frittelle, che vista la morbidezza dell’impasto chiamo correttamente Popizze, di quelle che non con le mani si maneggiano ma con il o i cucchiai, prendendone una cucchiaiata e lasciandola cadere nell’olio bollente che immediatamente le aggredisce, indurendone le scorza esterna e lasciando molle e spumoso l’interno. Ecco questo era il mio desiderio, lo scopo di tanto, in verità poco, daffare che mi ha occupato al rientro dal bagno pomeridiano.
A questo punto non restava altro che attendere un’oretta di lievitazione per far si che le bolle aumentassero di volume e la massa molliccia riempisse, fin quasi a traboccare, la coppa che ho sistemato chiusa in una busta di plastica, avvolta in una tovaglia, all’interno del forno di casa, illuminato dalla sua misera lucina che però ha il pregio di assicurare all’ambiente una temperatura costante di circa 18° utile alla crescita.
E ora in questi sessanta minuti d’apparente attesa chi mi segue in questa preparazione, deve inserire l’ingrediente principale, quello che aggiunge il tocco di magia al sapore. Qui si tratta di aggiungere il Desiderio con la De maiuscola, che appunto Appetito viene nominato, ovvero quello sessuale, d’amore corporale che il caldo settembrino, l’ormone mascolino e la bellezza della mia donna accendono. Come dicevamo al principio il Desiderio, se si riesce ad essere onesti, va riconosciuto e se possibile espresso, salvo incontrare l’altrui desiderio. Allora, se l’incontro avviene, l’amplificazione è massima. Nel mio e nostro caso così è stato. Abbiamo alzato al massimo il volume dell’impianto stereo dei nostri amori e umori e abbiamo suonato una sinfonia di atti sudati e gioiosi, affannati e sinuosi. La massa cresceva nel forno e i corpi s’intrecciavano lì dappresso, si perché, questo lo suggerisco, non va sprecato neanche un attimo per raggiungere posture ritenute più comode, che la comodità si scopre essere un concetto, quindi variabile e declinabile all’occorrenza. Noi lì in piedi-sdraiati-seduti.accovaccaiti eravamo comodissimi. Abbiamo fatto largo a questo ingrediente che a tutta la ricetta ha regalato il suo sapore intenso e indimenticabile. Di cui abbiamo saputo godere sino all’ultima stilla.
E poi ho rimesso le mani nella coppa che il gonfiore, della massa intendo, era quello giusto e, come ho detto prima, una cucchiaiata dopo l’altra, ho sfrigolato tutto il contenuto. La leggera mollezza delle gambe provate dall’esercizio fisico faceva il paio colla morbidezza budinosa della massa che andavo porzionando nell’olio bollente, sino a che riprendeva consistenza in forme impossibili, degne della migliore Tempura giapponese (l’arte di fare sculture fritte). Ma il desiderio, si sa, va coltivato ed alimentato perciò le Popizze Eccitanti ed Eccitate, non facevano in tempo a scivolare sulla reticola apposita anti-olio-in-eccesso che subito raggiungevano il piatto sulla tavola. A questo punto, il coltello per pennello, abbiamo decorato le forme bollentissime su cui la crema salato-piccante si scioglieva languida, per finire nelle nostre bocche di amanti di sapori e amori. Complici di sesso e di fritto.
Non sazio ho aggiunto piacere al piacere, al piacere, al piacere. Ho stappato a forchetta una bottiglia sudante di freezer di Birra Menabrea e ho colmato due bicchieroni che hanno dissetato i palati ustionati, dalla temperatura del fritto e del sesso.
Non sazio ho aggiunto piacere al piacere, al piacere, al piacere, al piacere, ho estromesso dal frigo la coppa di pomodorini arancio-rossi che avevo raccolto all’Orto, souvenir di fine stagione di una semina infantile nei fisici e nelle anime e con questi spaccati a metà ho penetrato le popizze non prima d’aver unto di Ricotta Piccante di Santo Biagio, che a questo punto, finito Il Santo abbiamo attinto alle riserve di Santa Daniela dei Monelli che col Santo se la contende. Il risulato è da brividi.
Il freddo del pomodorino addomestica l’ustione della popizza e lascia alla ricotta la libertà di emergere in tutto il suo meraviglioso e fetido gusto. Ho goduto al mare, tuffandomici dentro da solo al tramonto. Ho goduto in casa immergendo le mani nella mollezza della massa. Ho goduto insieme alla mia donna accarezzandone il corpo ed ogni anfratto. Ho goduto scottandomi il palato di popizze piccanti. Ho goduto raffreddando tutto nella schiuma densa di birra ghiacciata. Ho goduto addentando la popizza al pomodorino e ricotta. Ho goduto.


venerdì 31 agosto 2012


Compagni di viaggio
 
Il viaggio, quello mio e quello di tanti altri, spesso non è da un luogo all’altro, ma da una sensazione ad un’altra, da una emozione ad una sorpresa, da una luce ad una oscurità. E in questa geografia questa calda estate ho viaggiato molto. Mi sono spostato pochissimo misurando i chilometri, tantissimo valutando le distanze dell’anima. Bagaglio leggero, giusto lo stretto indispensabile e molta voglia di sentire. Un desiderio non espresso o voluto, ma frutto di una predisposizione agli eventi che mi ha consentito lunghi spostamenti emotivi. Dallo spaesamento iniziale, frutto di uno strascico da lavoro pesante e incombente, ad una leggerezza regalatami dalle leggere e incessanti curve delle colline d’Itria. Dalla inadeguatezza procurata da intrecci di incontri e umori, alla pulizia di un daffare sudato e incessante, al piacere coccolato dal fare inutile in cui mi sto specializzando. Sino al languore dell’ultimo tramonto sul mare tra abbracci, sale e scogli.
Un gran viaggiare in effetti, e in tutto questo andirivieni ho avuto due compagni di viaggio che mi hanno accompagnato silenti di parole, ma ricchi del loro proprio linguaggio. Il Vento e la Cacca.

Il Vento di Maestrale, più spesso ma anche di Scirocco e a volte Levante, ha accarezzato questi miei giorni assolati. Mi ha salutato sin dalla mia prima notte scompìgliando il telo di una tenda che ho creduto ben tesa e picchettata e che invece s’è dimostrata cedevole alle lusinghe del suo soffiare sino a giocare con lui suonando il suo fruscio di rigraziamento. Così la prima notte e poi il giorno e poi ancora le notti in un ritmo che ha lasciato spazio a calme piatte o anche a cambi di rotta che dal tiepido alito di Maestro volgesse al bollente soffio di Scirocco che come forno impazzito abbrustoliva pelli e anime. Già dal quel suo primo soffio ho sentito che mi avrebbe piacevolmente accompagnato e nonostante la veglia alla quale mi ha a volte costretto non sono riuscito a disprezzarlo, anzi lo cercavo e sorridevo quando all’alba, dopo una notte di calma, riprendeva a farsi sentire muovendo le leggere e austere foglie di ulivo sopra le nostre teste. L’ho percepito da subito, questa estate più che mai, come una carezza, forse era quella che cercavo e che ritrovavo in un evento così naturale da essere soprendente ogni volta che si manifesta. E che a me il vento piace e me lo godo. Non capisco chi, barricandosi dietro catastrofi salutistiche, evita le correnti, chiudendo usci e finestre interrompendo quel flusso magico che io invece vado a cercarmi assetato d’ossigeno. Il tentativo di arginare le correnti d’aria mi riporta ai teatrini della mia infanzia in cui i grandi pare non avessero altra preoccupazione che alzare barriere e dighe a questa ondata di aria in movimento. Non lo capivo allora e non lo capisco oggi. E lui il Vento, e che vento!, ha degnamente salutato il mio ritorno alla quotidianità, quando lungo la strada che mi, ci riportava a casa ha iniziato a soffiare con una forza e un impeto senza pari. Un vero e proprio fortunale, che la sua etimologia già la dice lunga sui suoi esiti, perché la fortuna spira e ti può travolgere. Lo sentivo agitare la leggera navicella della mia macchinetta pronto a farla volare via come ha fatto col pesc-hereccio di Pesc-ara. In quel pomeriggio di ritorno, dapprima solatio e caloroso, Eolo ha spinto a più non posso agitando tutto il possibile, anche la mia anima. Vento all’inizio, vento alla fine e vento in mezzo, così è passata questa mia stagione ventosa dentro e fuori.

Il secondo, anzi la seconda compagna di viaggio è stata la Cacca, la mia e quella degli altri con cui ho passato giorni liberi in libera terra. Il piacere che ormai da tre stagioni ci regaliamo di vivere alcuni giorni estivi in un luogo magico come l’atterrazzato poderino incastonato in una morbida gola verde di ulivi, mandorli, fichi e lentisco, tra Ostuni e Cisternino, senza né acqua corrente né luce elettrica, questo piacere dicevo, ci permette di tornare al gusto antico e profumato di “fare la cacca” all’aperto. Al posto del water, piccoli appoggi precari o la forza delle proprie cosce piegate, invece dello sciacquone la terra smossa dalla zappetta con cui ci si accompagna e, meraviglioso, al posto della piastrelle di un bagno più o meno grande, l’immenso paesaggio circostante il cui unico limite è dato dalla capacità visiva degli occhi, e ognuno ha la sua. Andare incontro a questo rito mattutino, per lo più ma anche meridiano o serale, ha un sapore buono e soprattutto ha il suo unico, inconfondibile e insostituibile profumo. E solo la libertà di questo spazio e di questa modalità lo restituisce in pieno. Con le cosce ripiegate su se stesse, a pochi centimetri da terreno, lasciandosi solleticare da fili d’erba ormai secca e da mosconi d’un verde smeraldino, non riesco a non rimanere affascinato (!) dallo spettacolo che si produce. Questa posizione così “animalescamente naturale” mi rimette in contatto con una parte di me che altrimenti nego. Vedere la materia che il lavoro di quel capolavoro di genetica che è il nostro corpo produce alla fine del suo ciclo giornaliero e davvero cosa unica. E mi fa anche riflettere, tanto sulla sua negazione da “civilizzati” asettici e iperpuliti, salvo poi scoprirci allergici anche all’aria che respiriamo, quanto a come questo prodotto parli di noi. E lo fa usando la sua lingua fatta di odore e profumo, restituendoci gli equilibri o i disequilibri della nostra alimentazione, ossia dell’atto più necessario, dopo la respirazione, che compiamo per sopravvivere. Certo anche l’urina ci rappresenta, ma quello, almeno per me maschietto, è un gesto più usuale. Una bella sana salutare e festosa pisciata all’aria tutti l’abbiamo fatta. Ma la cacca è altra cosa. Scoprirla scura e faticosa dopo una scorpacciata di carne magari annegata nel rosso del vino ci può far capire se è tempo di variare e come. Così come lo scorrere leggero, morbido e cremoso chiaro di una cacca dopo una bella mangiata di frutta, magari fichi e prugne ci rimette in pace con l’universo, di cui anche lei, la Cacca, fa parte, nonostante i nostri sforzi di nasconderla. Un po’ come la Morte che tanto ci spaventa e dalla quale ci sforziamo con tutte le nostre forze di allontanarci, senza vedere che lei è lì alla fine del ciclo, proprio come la Cacca e che dobbiamo solo augurarci che arrivi nel tempo giusto e con la giusta consistenza, la cacca e la morte. Anche il suo profumo è un indice, certo che il termine profumo è già un giudizio, il mio positivo, ognuno avrà il suo e allora più corretta è la parola “odore”. Della sua gradevolezza ognuno è padrone. Ma per me è profumo, non nel senso frivolo di spray copriodore da indossare, ma stimolo olfattivo da percepire e gustare, perché anche lui come il colore ti racconta di ciò che è stato. E l’afrore di una frittura di pesce te lo restituisce tutto. Guardare, odorare, sentire la tua cacca è una esperienza che dovremmo riprovare, ritornando bambini, come me che sotto il tendone di uva Regina o l’albero di fico me ne andavo a fare la mia parte di bimbo bravo che non se la faceva più addosso.
La cosa bella dello stare di questa nostra micro tribù è che questo atto è condiviso, che se ne parla e che se ne incontra, lungo il percorso verso il panorama che ognuno di noi sceglie per il proprio rito liberatorio.

Eccoli qui i miei compagni di viaggio che in quest’agosto da fine-Maya mi hanno seguito, anticipato, affiancato rendendo i miei giorni unici e sorprendenti di ora in ora, di minuto in minuto, dalle albe vuotissimamente silenziose, alle notti buiosamente stellate, agli orizzonti liquidamente confusi, ai frutti giocosamente rubati.
E su tutti lui, bianco più che mai, rugoso,  accogliente, invitante Trullino di Casalini, territorio ineguagliabile per viaggi infiniti, con o senza venti e cacche.

venerdì 3 agosto 2012

Le Stelle di San Lorenzo
La tribù si sposta sotto il cielo di Conversano
per vederne di belle, di stelle!
Storie, bici, stelle, incrostate, biobevande e santi,
in una notte che più magica non si può.

 
FESTATEINORTO

lunedì 30 luglio 2012

LA FESTA AL TEPEE
Il 22 di luglio, ad un mese circa dalla sua comparsa nella tribù,
abbiamo acceso fuoco, musica, sorrisi e abbracci
in cerchio intorno al nostro cono magico.
E ci è piaciuto!






giovedì 26 luglio 2012

Del tepee



Della vista acuta e del volo alto d’aquila, capace di vedere ciò che altri no, di Delfino-Imprecante.

Della sibillina profezia e della adesione liberatrice d’energie di Nostra-Signora-degli-Aghi, cucitrice d’emozioni.

Della carica travolgente e della irsuta generosità da bisonte di Don Juan Panza-che-Danza.

Del tocco leggero e della spinta trasformatrice che bruco sublima di Farfalla-di-Fiume.

Della vitale, rassicurante e duale presenza di Orso-Grigio e Chiaro-di-Luna.

Della precussiva corposità di Orso-Guercio.

Della pacante sapienza della tribù Norbo-Nipponica.

Della scintilla di gaiezza di Frida-che-Rida.

Del senso di concretezza guidato da impalpabili vibrisse da topo di Lupogrigio.

Dell’abbraccio d’anime e corpi della tribù tutta.

Del sole che brucia e accarezza dorando.

Dei tronchi che stanno, del vento che passa.

Di pavone che ruota e gallo che canta.

Di cicala che impazza e sudore che cola.



Di tutto questo si nutre questa nostra sacra tenda, polo magnetico d’emozioni, attenzioni, invenzioni, spaesamenti e trasformazioni. Dimora autoreggente aperta alle albe, circolare alle sensazioni, morbida ai desideri, resistente alle incurie, refrattaria all’impossibile. Raccoglitore imperfetto di sogni, amplificatore colorante di piaceri, stimolatore impreciso di giochi. Imbuto al cielo, per travasare energie e passioni.



Grazie allo spirito che ci ha guidato, all’anima che ci ha ispirato, al cuore che ci ha battuto, al bambino che ci ha giocato, all’adulto che ci ha accudito, al cerchio che ci ha legato. Grazie.


montato il 24.06.12, festeggiato il 22.07.12


venerdì 6 luglio 2012


Ricordi pesanti

La vista di un grande camion carico d’un enorme blocco di pietra che supero veloce con la macchina, ha aperto una scansia nella mia credenza dei ricordi. Si è riaccesa vivida l’immagine e tutto quello che ne segue, della strada bianca e polverosa che accarezzava il muro di cinta di quel luogo dell’anima che è “la villa-di-trani”. La casa dei nonni che ha ospitato le mie stagioni di giochi, scoperte ed esperienze. Nei suoi pressi c’erano, e ci sono ancora purtroppo abbandonate, grandi voragini abbacinanti di pietra bianchissima screziata di venature rugginose, Scrigni generosi della preziosa Pietra di Trani. Oggetto del desiderio di artisti, progettisti, marmisti, tombisti. Da queste caverne a cielo aperto fuoriuscivano dei grandi camion, enormi per me allora, mediocri oggi, paragonati agli elefantiaci carrozzoni mutlicolorati e luminescenti a 10, 12 o 16 ruote che calpestano i nostri asfalti. Quelli della mia infanzia erano cigolanti carrette che trascinavano a fatica un fardello enorme di pietra appena sbozzata, giusto il necessario per entrare nel cassone, di cui deformavano le sponde. Questi muli di ferro e gasolio ripetevano decine di volte il percorso tra le cave e le marmerie dove il pesante e prezioso carico veniva rifinito, affettato e lucidato pronto per trasformarsi in pavimento, opera d’arte o tomba. Il loro passaggio davanti allo schermo del monitor dei miei ricordi che è il cancello verde della villa, delimitato da due grandi colonne di tufo terminate con grandi vasi da cui emergevano spinosissime e guardiane foglie di agave, questo passaggio dicevo, era preannunciato e soprattutto seguito da una meravigliosa nuvola di bianchissima povere, traccia che la strada, anch’essa contaminata dal contenuto caveoso, rilasciava come memoria della fatica che sopportava nell’accogliere tanto passaggio. Ed io lì, dietro le sbarre del cancello, spesso profumato di vernice fresca che il nonno, e da grandicello io con lui, ripassava ad ogni stagione, a guardare lo spettacolo, incurante della cura materna e nonnerna che mi gridavano di stare lontano dalla polvere. Tutto era immerso nel biancore di estati lunghissime in cui anche questo usuale e minimale avvenimento aveva spessore. Mi ricordo l’impasto che le briciole di strada formavano con la mia saliva, il caldo senza scampo che accoglieva il piccolo me, il grande camion, la accogliente villa. E il vuoto precedente e seguente.
A volte seguivo le loro tracce, a bordo di improbabili e per questo meravigliose biciclette, tanto alte per me allora che le pedalavo di traverso, infilando la mia gambetta sottile tra l’asse orizzontale della sella e quello obliquo dei pedali in una andatura buffa ma efficace. Me ne tenevo a distanza per non ingoiare troppa polvere, tanto era impossibile perderli di vista, bastava seguire la nuvola bianca. E così finivo per avvicinarmi, prima, e addentrarmi poi, nella cava. Un luogo magico, da percorrere con massima attenzione, rispettandola, misurando i passi per non scivolare lungo dirupi alti e lisci da vertigine. Era un atto temerario, una di quelle sfide che ti fanno crescere. Un luogo proibito e vietato da esplorare. Ci andavo all’imbrunire, alla fine dell’orario di lavoro, quando era muto e svuotato del fare. Scendevo a rotta di collo lungo le sconnessissime vie d’accesso, fatte per le grandi ruote dei camion, non certo per le gomme, spesso sgonfie dei miei bicicli, per giunta sempre con pochissima capacità frenante. Andavo a guardare le enormi gru rosso ruggine che tiravano su i blocchi di pietra, grandi animali pre-post-istorici, tenuti in equilibrio da tiranti in acciaio tesi come corde di chitarra. Andavo a guardare le enormi fiancate che strapiombavano dal livello strada sino a venti o trenta metri in basso segnate dalle decorazioni parallele dei segni che le punte dei martelloni pneumatici lasciavano sulla superficie. Andavo a sguazzare nel fango arancio che sempre la cava conteneva nella parte più bassa, residuo di pioggia e di acqua necessaria alle lavorazioni dei marmi. Isole al contrario, in cui l’acqua melmosa era circondata dal lago disidratato e spaccato di una crosta che se ne veniva a pezzi tra le mani, tingendole di ocra rugginoso.
Ritornare alla fine ad una luce meno abbacinante ed a un orizzonte più esteso comportava molta fatica, ripercorrere al contrario le “discese ardite” era cosa non da poco che compivo sudando ancora di più le mie minuscole canottiere bianco-rigatine, un indumento che mi commuove, perso nella memoria mia e di tanti di noi. A volte questi viaggi nell’inferno magico e vicino li percorrevo in compagnia, mio fratello, cugine e cugine, zii sufficientemente giovani e trasgressivi, piccole tribù in movimento alla ricerca di scoperte e sorprese.
Oggi mi chiedo perché così spesso mi intrufolo in questi meandri di memoria, cosa cerco, cosa mi spinge. Non è solo sapore di nostalgia, voglia di tornare indietro, no, c’è qualcosa d’altro. Lo vidi la prima volta nella mia prima esperienza di analisi, quando la terapista (disdegnata allora, più che mai riscoperta oggi) mi portò verso quei luoghi per riassaporarne il gusto buono e me li presentò come il serbatoio di serenità e benessere a cui attingere per l’equilibrio dell’oggi.
Di questa grande riserva di carburante pacificante non posso che ringraziare i miei genitori, la loro semplicità mai vissuta come privativa, ma come naturale e arricchente.
Ci vuole tempo e lavoro perché queste sensazioni emergano e perché se ne senta tutto il valore, ma prima o poi succede e spero che accada questo anche nell’anima bella di mia figlia. Anche per questo le sono padre.