Compagni di viaggio
Il viaggio, quello mio e
quello di tanti altri, spesso non è da un luogo all’altro, ma da una sensazione
ad un’altra, da una emozione ad una sorpresa, da una luce ad una oscurità. E in
questa geografia questa calda estate ho viaggiato molto. Mi sono spostato
pochissimo misurando i chilometri, tantissimo valutando le distanze dell’anima.
Bagaglio leggero, giusto lo stretto indispensabile e molta voglia di sentire.
Un desiderio non espresso o voluto, ma frutto di una predisposizione agli
eventi che mi ha consentito lunghi spostamenti emotivi. Dallo spaesamento
iniziale, frutto di uno strascico da lavoro pesante e incombente, ad una
leggerezza regalatami dalle leggere e incessanti curve delle colline d’Itria.
Dalla inadeguatezza procurata da intrecci di incontri e umori, alla pulizia di
un daffare sudato e incessante, al piacere coccolato dal fare inutile in cui mi
sto specializzando. Sino al languore dell’ultimo tramonto sul mare tra
abbracci, sale e scogli.
Un gran viaggiare in effetti,
e in tutto questo andirivieni ho avuto due compagni di viaggio che mi hanno
accompagnato silenti di parole, ma ricchi del loro proprio linguaggio. Il Vento
e la Cacca.
Il Vento di Maestrale, più
spesso ma anche di Scirocco e a volte Levante, ha accarezzato questi miei
giorni assolati. Mi ha salutato sin dalla mia prima notte scompìgliando il telo
di una tenda che ho creduto ben tesa e picchettata e che invece s’è dimostrata
cedevole alle lusinghe del suo soffiare sino a giocare con lui suonando il suo
fruscio di rigraziamento. Così la prima notte e poi il giorno e poi ancora le
notti in un ritmo che ha lasciato spazio a calme piatte o anche a cambi di
rotta che dal tiepido alito di Maestro volgesse al bollente soffio di Scirocco
che come forno impazzito abbrustoliva pelli e anime. Già dal quel suo primo
soffio ho sentito che mi avrebbe piacevolmente accompagnato e nonostante la
veglia alla quale mi ha a volte costretto non sono riuscito a disprezzarlo,
anzi lo cercavo e sorridevo quando all’alba, dopo una notte di calma,
riprendeva a farsi sentire muovendo le leggere e austere foglie di ulivo sopra
le nostre teste. L’ho percepito da subito, questa estate più che mai, come una
carezza, forse era quella che cercavo e che ritrovavo in un evento così
naturale da essere soprendente ogni volta che si manifesta. E che a me il vento
piace e me lo godo. Non capisco chi, barricandosi dietro catastrofi
salutistiche, evita le correnti, chiudendo usci e finestre interrompendo quel
flusso magico che io invece vado a cercarmi assetato d’ossigeno. Il tentativo
di arginare le correnti d’aria mi riporta ai teatrini della mia infanzia in cui
i grandi pare non avessero altra preoccupazione che alzare barriere e dighe a
questa ondata di aria in movimento. Non lo capivo allora e non lo capisco oggi.
E lui il Vento, e che vento!, ha degnamente salutato il mio ritorno alla
quotidianità, quando lungo la strada che mi, ci riportava a casa ha iniziato a
soffiare con una forza e un impeto senza pari. Un vero e proprio fortunale, che
la sua etimologia già la dice lunga sui suoi esiti, perché la fortuna spira e
ti può travolgere. Lo sentivo agitare la leggera navicella della mia
macchinetta pronto a farla volare via come ha fatto col pesc-hereccio di
Pesc-ara. In quel pomeriggio di ritorno, dapprima solatio e caloroso, Eolo ha
spinto a più non posso agitando tutto il possibile, anche la mia anima. Vento
all’inizio, vento alla fine e vento in mezzo, così è passata questa mia
stagione ventosa dentro e fuori.
Il secondo, anzi la seconda
compagna di viaggio è stata la Cacca, la mia e quella degli altri con cui ho
passato giorni liberi in libera terra. Il piacere che ormai da tre stagioni ci
regaliamo di vivere alcuni giorni estivi in un luogo magico come l’atterrazzato
poderino incastonato in una morbida gola verde di ulivi, mandorli, fichi e
lentisco, tra Ostuni e Cisternino, senza né acqua corrente né luce elettrica,
questo piacere dicevo, ci permette di tornare al gusto antico e profumato di
“fare la cacca” all’aperto. Al posto del water, piccoli appoggi precari o la
forza delle proprie cosce piegate, invece dello sciacquone la terra smossa
dalla zappetta con cui ci si accompagna e, meraviglioso, al posto della
piastrelle di un bagno più o meno grande, l’immenso paesaggio circostante il
cui unico limite è dato dalla capacità visiva degli occhi, e ognuno ha la sua.
Andare incontro a questo rito mattutino, per lo più ma anche meridiano o
serale, ha un sapore buono e soprattutto ha il suo unico, inconfondibile e
insostituibile profumo. E solo la libertà di questo spazio e di questa modalità
lo restituisce in pieno. Con le cosce ripiegate su se stesse, a pochi
centimetri da terreno, lasciandosi solleticare da fili d’erba ormai secca e da
mosconi d’un verde smeraldino, non riesco a non rimanere affascinato (!) dallo
spettacolo che si produce. Questa posizione così “animalescamente naturale” mi
rimette in contatto con una parte di me che altrimenti nego. Vedere la materia
che il lavoro di quel capolavoro di genetica che è il nostro corpo produce alla
fine del suo ciclo giornaliero e davvero cosa unica. E mi fa anche riflettere,
tanto sulla sua negazione da “civilizzati” asettici e iperpuliti, salvo poi
scoprirci allergici anche all’aria che respiriamo, quanto a come questo
prodotto parli di noi. E lo fa usando la sua lingua fatta di odore e profumo,
restituendoci gli equilibri o i disequilibri della nostra alimentazione, ossia
dell’atto più necessario, dopo la respirazione, che compiamo per sopravvivere.
Certo anche l’urina ci rappresenta, ma quello, almeno per me maschietto, è un
gesto più usuale. Una bella sana salutare e festosa pisciata all’aria tutti
l’abbiamo fatta. Ma la cacca è altra cosa. Scoprirla scura e faticosa dopo una
scorpacciata di carne magari annegata nel rosso del vino ci può far capire se è
tempo di variare e come. Così come lo scorrere leggero, morbido e cremoso
chiaro di una cacca dopo una bella mangiata di frutta, magari fichi e prugne ci
rimette in pace con l’universo, di cui anche lei, la Cacca, fa parte,
nonostante i nostri sforzi di nasconderla. Un po’ come la Morte che tanto ci
spaventa e dalla quale ci sforziamo con tutte le nostre forze di allontanarci,
senza vedere che lei è lì alla fine del ciclo, proprio come la Cacca e che
dobbiamo solo augurarci che arrivi nel tempo giusto e con la giusta
consistenza, la cacca e la morte. Anche il suo profumo è un indice, certo che
il termine profumo è già un giudizio, il mio positivo, ognuno avrà il suo e
allora più corretta è la parola “odore”. Della sua gradevolezza ognuno è
padrone. Ma per me è profumo, non nel senso frivolo di spray copriodore da
indossare, ma stimolo olfattivo da percepire e gustare, perché anche lui come
il colore ti racconta di ciò che è stato. E l’afrore di una frittura di pesce
te lo restituisce tutto. Guardare, odorare, sentire la tua cacca è una
esperienza che dovremmo riprovare, ritornando bambini, come me che sotto il
tendone di uva Regina o l’albero di fico me ne andavo a fare la mia parte di
bimbo bravo che non se la faceva più addosso.
La cosa bella dello stare di
questa nostra micro tribù è che questo atto è condiviso, che se ne parla e che
se ne incontra, lungo il percorso verso il panorama che ognuno di noi sceglie
per il proprio rito liberatorio.
Eccoli qui i miei compagni di
viaggio che in quest’agosto da fine-Maya mi hanno seguito, anticipato,
affiancato rendendo i miei giorni unici e sorprendenti di ora in ora, di minuto
in minuto, dalle albe vuotissimamente silenziose, alle notti buiosamente
stellate, agli orizzonti liquidamente confusi, ai frutti giocosamente rubati.
E su tutti lui, bianco più
che mai, rugoso, accogliente,
invitante Trullino di Casalini, territorio ineguagliabile per viaggi infiniti,
con o senza venti e cacche.
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