Della serie ricette eccitanti, da provare e riprovare. Parola di Lupogrigio.
Se volete mettete a nanna i minori e se no che se la godano anche loro.
POPIZZE GODURIOSE
V.M 18
Mi rendo conto o, secondo la lingua della Benemerita,
“avendo contezza” che le mie ricette (parolone per una serie di pensieri in
libertà tra fornelli e fardelli) hanno il limite della occasionalità, unicità,
irripetibilità. Però i limiti oltre che sagge guide sono anche frontiere da
attraversare e allora l’invito è: Fallo!
Questa volta non so se le parole colmeranno il capasone
d’emozione, umori, sapori che l’occasione ha generato. Che già gli ingredienti
sono eccezionali, frutto cioè dell’eccezione, di istanti colti nel momento in
cui s’avverano.
Gli ingredienti, dicevo, il principale è il Desiderio. E già
qui potrei dilungarmi sino a rendere barbute anche le gote d’una quindicenne.
Perché il Desiderio và innanzitutto riconosciuto dentro di sé e materializzato
fuori di sé. L’operazione non è semplice come pare perché non parlo di semplice
“voglia di”, ma del riuscire a dare parola alla parte spesso più sopita di sé
che stenta ad emergere se non attraverso strettoie, labirinti e oscurità,
uscendone smarrito, distorto, negato. E il desiderio di un sapore sfizioso,
apparecchiato da me medesimo e addirittura impastato s’è andato formando nella
mia mente mentre esaudivo altro desiderio, quello d’un bagno settembrino sino
allo sgocciolare dorato dell’ultimo sole che di questi tempi a queste
latitudini riesce a “fare impallidire” anche le migliori pubblicità tropicali.
E così mentre mi beavo delle tepide onde e delicato sole ho aperto la finestra
delle voglie ed è emersa quella di frittelle di pasta cresciuta, pittate di
bianco-ricotta-forte o di rosso-pomodoro. Ho desiderato così di rientrare a
casa, ma piano, mollemente come il clima interiore ed esteriore suggeriva. Ho
preso colla mia macchinetta la strada del mare, non l’impersonale, efficiente,
rumorosa tangenziale, ma l’imperfetto nastro camionabile che affiancando il
mare permette di vederlo e, se hai tempo e voglia, anche di osservarlo.
Cogliendone colori, odori, mosse, fremiti e ampiezze altrimenti negate. Col
giusto ritmo e nel giusto tempo sono arrivato davanti alla coppa in cui ho
versato poco oltre mezzo pacco di farina bianca mescolata con l’acqua
intiepidita e intorpidita dal panetto di lievito di birra che ci ho sbriciolato
dentro. Una manciata generosa di sale e un pizzico avaro di zucchero hanno
fatto compagnia agli altri e tutti insieme, smossi dal forchettone di legno, si
sono tramutati in un ammasso molle, cremoso e bolloso che già faceva presagire
i risultati. Per aumentare l’effetto piacere ho tirato fuori dal frigo, a questo
punto, il vasetto di vetro con “la reliquia”. Già perché di questo si tratta.
Della traccia prodigiosa di una scoperta benedetta da San Biagio d’Ostuni in
persona, anzi in monastero. Questa crema velluata d’un bianco appena, ma appena
giallinato, delicatissima nel suo gusto acido e decisissima nella sua
persistenza sapida deriva da un viaggio alla scoperta del santuario del
protettore della gola che s’inerpica lungo le coste d’una gola, appunto, che dà
le spalle alla terra ostunese e la faccia alla piana fasanese. Un posto che
trasuda magia ed emozione, storia e geografia, anime e corpi. A guardiano di
cotanta ricchezza, una masseria delle nostre, grande e austera, per niente
ritoccata da mani distruttive di restauratori che ben altro dovrebbero fare che
non omologare ogni architettura che incontrano alle immagini patinate del loro
depliant mentale. Questa è bella antica e vecchia, neanche tutta bianca, ma di
faccia rossa con contafforti ocra, posta a cavallo della dorsale della murgia
ostunese da cui si guarda e si domina un paesaggio che solo l’angolo di visuale
dei nostri occhi può delimitare. Nelle stanze vive e non imbalsamate di questo
scrigno, dopo aver sudato e salutato il monastero di Santo Biagio con tutti i
suoi benefici effetti, ci siamo lasciati conquistare dai formaggi che gli
inquilini ci hanno portato, senza insistenza, anzi con una certa ritrosia che
rispetto ai convenevoli affettati e odiosissimi dei nostri spacci alimentari
sono come il giorno e la notte, uno è luce, l’altero è buio profondo. Di
sincerità.
Ritorniamo alle frittelle, che vista la morbidezza
dell’impasto chiamo correttamente Popizze, di quelle che non con le mani si
maneggiano ma con il o i cucchiai, prendendone una cucchiaiata e lasciandola
cadere nell’olio bollente che immediatamente le aggredisce, indurendone le
scorza esterna e lasciando molle e spumoso l’interno. Ecco questo era il mio
desiderio, lo scopo di tanto, in verità poco, daffare che mi ha occupato al
rientro dal bagno pomeridiano.
A questo punto non restava altro che attendere un’oretta di
lievitazione per far si che le bolle aumentassero di volume e la massa
molliccia riempisse, fin quasi a traboccare, la coppa che ho sistemato chiusa
in una busta di plastica, avvolta in una tovaglia, all’interno del forno di
casa, illuminato dalla sua misera lucina che però ha il pregio di assicurare
all’ambiente una temperatura costante di circa 18° utile alla crescita.
E ora in questi sessanta minuti d’apparente attesa chi mi
segue in questa preparazione, deve inserire l’ingrediente principale, quello
che aggiunge il tocco di magia al sapore. Qui si tratta di aggiungere il
Desiderio con la De maiuscola, che appunto Appetito viene nominato, ovvero
quello sessuale, d’amore corporale che il caldo settembrino, l’ormone mascolino
e la bellezza della mia donna accendono. Come dicevamo al principio il
Desiderio, se si riesce ad essere onesti, va riconosciuto e se possibile
espresso, salvo incontrare l’altrui desiderio. Allora, se l’incontro avviene,
l’amplificazione è massima. Nel mio e nostro caso così è stato. Abbiamo alzato
al massimo il volume dell’impianto stereo dei nostri amori e umori e abbiamo
suonato una sinfonia di atti sudati e gioiosi, affannati e sinuosi. La massa
cresceva nel forno e i corpi s’intrecciavano lì dappresso, si perché, questo lo
suggerisco, non va sprecato neanche un attimo per raggiungere posture ritenute
più comode, che la comodità si scopre essere un concetto, quindi variabile e
declinabile all’occorrenza. Noi lì in piedi-sdraiati-seduti.accovaccaiti eravamo
comodissimi. Abbiamo fatto largo a questo ingrediente che a tutta la ricetta ha
regalato il suo sapore intenso e indimenticabile. Di cui abbiamo saputo godere
sino all’ultima stilla.
E poi ho rimesso le mani nella coppa che il gonfiore, della
massa intendo, era quello giusto e, come ho detto prima, una cucchiaiata dopo
l’altra, ho sfrigolato tutto il contenuto. La leggera mollezza delle gambe
provate dall’esercizio fisico faceva il paio colla morbidezza budinosa della
massa che andavo porzionando nell’olio bollente, sino a che riprendeva
consistenza in forme impossibili, degne della migliore Tempura giapponese
(l’arte di fare sculture fritte). Ma il desiderio, si sa, va coltivato ed
alimentato perciò le Popizze Eccitanti ed Eccitate, non facevano in tempo a
scivolare sulla reticola apposita anti-olio-in-eccesso che subito raggiungevano
il piatto sulla tavola. A questo punto, il coltello per pennello, abbiamo
decorato le forme bollentissime su cui la crema salato-piccante si scioglieva
languida, per finire nelle nostre bocche di amanti di sapori e amori. Complici
di sesso e di fritto.
Non sazio ho aggiunto piacere al piacere, al piacere, al
piacere. Ho stappato a forchetta una bottiglia sudante di freezer di Birra
Menabrea e ho colmato due bicchieroni che hanno dissetato i palati ustionati,
dalla temperatura del fritto e del sesso.
Non sazio ho aggiunto piacere al piacere, al piacere, al
piacere, al piacere, ho estromesso dal frigo la coppa di pomodorini
arancio-rossi che avevo raccolto all’Orto, souvenir di fine stagione di una
semina infantile nei fisici e nelle anime e con questi spaccati a metà ho
penetrato le popizze non prima d’aver unto di Ricotta Piccante di Santo Biagio,
che a questo punto, finito Il Santo abbiamo attinto alle riserve di Santa Daniela
dei Monelli che col Santo se la contende. Il risulato è da brividi.
Il freddo del pomodorino addomestica l’ustione della popizza
e lascia alla ricotta la libertà di emergere in tutto il suo meraviglioso e
fetido gusto. Ho goduto al mare, tuffandomici dentro da solo al tramonto. Ho
goduto in casa immergendo le mani nella mollezza della massa. Ho goduto insieme
alla mia donna accarezzandone il corpo ed ogni anfratto. Ho goduto scottandomi
il palato di popizze piccanti. Ho goduto raffreddando tutto nella schiuma densa
di birra ghiacciata. Ho goduto addentando la popizza al pomodorino e ricotta.
Ho goduto.
Nessun commento:
Posta un commento