venerdì 6 luglio 2012


Ricordi pesanti

La vista di un grande camion carico d’un enorme blocco di pietra che supero veloce con la macchina, ha aperto una scansia nella mia credenza dei ricordi. Si è riaccesa vivida l’immagine e tutto quello che ne segue, della strada bianca e polverosa che accarezzava il muro di cinta di quel luogo dell’anima che è “la villa-di-trani”. La casa dei nonni che ha ospitato le mie stagioni di giochi, scoperte ed esperienze. Nei suoi pressi c’erano, e ci sono ancora purtroppo abbandonate, grandi voragini abbacinanti di pietra bianchissima screziata di venature rugginose, Scrigni generosi della preziosa Pietra di Trani. Oggetto del desiderio di artisti, progettisti, marmisti, tombisti. Da queste caverne a cielo aperto fuoriuscivano dei grandi camion, enormi per me allora, mediocri oggi, paragonati agli elefantiaci carrozzoni mutlicolorati e luminescenti a 10, 12 o 16 ruote che calpestano i nostri asfalti. Quelli della mia infanzia erano cigolanti carrette che trascinavano a fatica un fardello enorme di pietra appena sbozzata, giusto il necessario per entrare nel cassone, di cui deformavano le sponde. Questi muli di ferro e gasolio ripetevano decine di volte il percorso tra le cave e le marmerie dove il pesante e prezioso carico veniva rifinito, affettato e lucidato pronto per trasformarsi in pavimento, opera d’arte o tomba. Il loro passaggio davanti allo schermo del monitor dei miei ricordi che è il cancello verde della villa, delimitato da due grandi colonne di tufo terminate con grandi vasi da cui emergevano spinosissime e guardiane foglie di agave, questo passaggio dicevo, era preannunciato e soprattutto seguito da una meravigliosa nuvola di bianchissima povere, traccia che la strada, anch’essa contaminata dal contenuto caveoso, rilasciava come memoria della fatica che sopportava nell’accogliere tanto passaggio. Ed io lì, dietro le sbarre del cancello, spesso profumato di vernice fresca che il nonno, e da grandicello io con lui, ripassava ad ogni stagione, a guardare lo spettacolo, incurante della cura materna e nonnerna che mi gridavano di stare lontano dalla polvere. Tutto era immerso nel biancore di estati lunghissime in cui anche questo usuale e minimale avvenimento aveva spessore. Mi ricordo l’impasto che le briciole di strada formavano con la mia saliva, il caldo senza scampo che accoglieva il piccolo me, il grande camion, la accogliente villa. E il vuoto precedente e seguente.
A volte seguivo le loro tracce, a bordo di improbabili e per questo meravigliose biciclette, tanto alte per me allora che le pedalavo di traverso, infilando la mia gambetta sottile tra l’asse orizzontale della sella e quello obliquo dei pedali in una andatura buffa ma efficace. Me ne tenevo a distanza per non ingoiare troppa polvere, tanto era impossibile perderli di vista, bastava seguire la nuvola bianca. E così finivo per avvicinarmi, prima, e addentrarmi poi, nella cava. Un luogo magico, da percorrere con massima attenzione, rispettandola, misurando i passi per non scivolare lungo dirupi alti e lisci da vertigine. Era un atto temerario, una di quelle sfide che ti fanno crescere. Un luogo proibito e vietato da esplorare. Ci andavo all’imbrunire, alla fine dell’orario di lavoro, quando era muto e svuotato del fare. Scendevo a rotta di collo lungo le sconnessissime vie d’accesso, fatte per le grandi ruote dei camion, non certo per le gomme, spesso sgonfie dei miei bicicli, per giunta sempre con pochissima capacità frenante. Andavo a guardare le enormi gru rosso ruggine che tiravano su i blocchi di pietra, grandi animali pre-post-istorici, tenuti in equilibrio da tiranti in acciaio tesi come corde di chitarra. Andavo a guardare le enormi fiancate che strapiombavano dal livello strada sino a venti o trenta metri in basso segnate dalle decorazioni parallele dei segni che le punte dei martelloni pneumatici lasciavano sulla superficie. Andavo a sguazzare nel fango arancio che sempre la cava conteneva nella parte più bassa, residuo di pioggia e di acqua necessaria alle lavorazioni dei marmi. Isole al contrario, in cui l’acqua melmosa era circondata dal lago disidratato e spaccato di una crosta che se ne veniva a pezzi tra le mani, tingendole di ocra rugginoso.
Ritornare alla fine ad una luce meno abbacinante ed a un orizzonte più esteso comportava molta fatica, ripercorrere al contrario le “discese ardite” era cosa non da poco che compivo sudando ancora di più le mie minuscole canottiere bianco-rigatine, un indumento che mi commuove, perso nella memoria mia e di tanti di noi. A volte questi viaggi nell’inferno magico e vicino li percorrevo in compagnia, mio fratello, cugine e cugine, zii sufficientemente giovani e trasgressivi, piccole tribù in movimento alla ricerca di scoperte e sorprese.
Oggi mi chiedo perché così spesso mi intrufolo in questi meandri di memoria, cosa cerco, cosa mi spinge. Non è solo sapore di nostalgia, voglia di tornare indietro, no, c’è qualcosa d’altro. Lo vidi la prima volta nella mia prima esperienza di analisi, quando la terapista (disdegnata allora, più che mai riscoperta oggi) mi portò verso quei luoghi per riassaporarne il gusto buono e me li presentò come il serbatoio di serenità e benessere a cui attingere per l’equilibrio dell’oggi.
Di questa grande riserva di carburante pacificante non posso che ringraziare i miei genitori, la loro semplicità mai vissuta come privativa, ma come naturale e arricchente.
Ci vuole tempo e lavoro perché queste sensazioni emergano e perché se ne senta tutto il valore, ma prima o poi succede e spero che accada questo anche nell’anima bella di mia figlia. Anche per questo le sono padre.

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