ANIMANI
Ho sul comodino un piccolo libro
dal titolo per me molto intrigante “L’anima nei piedi”. Il suo contenuto poi
no, un mieloso finale inquina il racconto di un viaggio in una tribù
indioamericana, con molte belle descrizioni di loro cerimoniali e personaggi,
ma che l’autrice ha, ai miei occhi, travisato riportando tutto e solo a sé. Ma
come critico letterario io sono peggio di lei come scrittrice e allora lasciamo
perdere. La cosa vera è che più di tutta la narrazione il solo titolo mi ha
raccontato e fatto riflettere. Spostare l’anima nei piedi è un bell’atto per
noi occidentali, spesso chiesizzati, e spessissimo cardiocentrici o
cerebrofocalizzati. Mettere l’anima nei piedi: ad un tempo riconoscere le
nostre radici e la capacità di muoverle, quello che ci lega alla terra è lo
stesso che su di essa ci permettere di andare. Bella e intensa metafora che gli
Indiani d’America insieme a tutti i popoli nomadi conoscono bene. Dovremmo
farla nostra. Ciò nonostante il bello di questo titolo è come mi abbia portato
a pensare a me, a dove colloco io l’anima mia e altrui.
La risposta è che per me l’anima
è nelle mani.
Non mi sento sufficientemente
nomade da vederla lì, sotto le caviglie, pronta a sostenere e muovere tutto il
peso della persona, e non solo quello fisico. Meglio le mani, mobili, leggere,
capaci o al contrario ferme, pesanti e inabili, ma pur sempre espressive, per
me. Sento che le mie di mani portano la mia anima, la racchiudono a volte, la
spingono fuori, altre. Le mie mi ricordano quelle di mia nonna e di mio padre.
Un albero genealogico “a portata di mano”. Le estremità della madre di mia
madre erano una poesia, commoventi nella loro contorsione, scolpite
dall’artrite e pur sempre in moto. Erano, sono, al presente come tutto ciò che
i genitori ti donano, il segno stesso della vita e non solo la sua, ma quella
di tutti noi, giacchè da lei tutti noi dipendevamo, ma senza pesantezze o
obblighi, nella maniera delicata e amorevole che la sua anima era capace di
trasmettere. Se lei cucinava la tavola era una festa, se lavorava nei campi
avevamo qualcosa da scoprire, assaggiare, toccare. Tutta la mia vita da bambino
è passata attraverso le sue dieci piccole e fortissime dita. Mani generose di
anima accogliente.
Anche le mie ora vanno verso
quelle piegature. Come le sue hanno nocche rigonfie e falangi eterodosse, poco
inclini all’incolonnamento e come quelle sono sempre in attività.
Di mio padre porto il disegno a
rilievo della geografia venosa che riporta l’esausto sangue bluastro, dalla
periferia al centro pulsante e rigenerante, per un altro ennesimo giro di
quella giostra vitale che è il nostro sistema circolatorio. Mi ricordo che
ammiravo e desideravo quei cunicoli violacei affioranti sui dorsi delle sue
mani. Non le ho mai viste strafare, nel senso della pura fatica, ma erano
comunque sapienti, adatte. Dai pennelli alle stoviglie. Un ottimo uomo, un
grande padre e una grande anima certamente, quella del genitore migliore che mi
potesse capitare e in quelle sue mani ci stava tutto questo suo fascino.
Le altre mani importanti sono
quelle di mia madre, ma qui il ricordo si fa opaco, annebbiato dalla immagine
delle sue spesso ferme e gonfie a palloncino, nel gonfiore di una terapia
endovenosa che dilatava tutto ciò che incontrava. Gonfie di dolore direi oggi,
come la sua anima, ferita ma vitale.
Di tutte questa mani ricordo le
carezze, tenerissime quelle di mia madre, rarissime e perciò preziose quelle di
mio padre, ossute e accudenti quelle di mia nonna. Ma non è solo per questa
antologia della rimembranza che colloco l’anima di ogni donna e ogni uomo nelle
sue mani. È che l’atto di toccare, tatteggiare, prendere, lasciare, racchiude
tutto il profondo di ognuno di noi. È lì che poso gli occhi, altri veicoli
dell’anima, quando incontro una persona e non solo la prima volta ricavandone
l’impressione che spesso è la definitiva, ma sempre ad ogni incontro, perché
ogni istante è diverso dall’altro, si cambia e le mani questo lo dicono bene.
Difficile barare con loro.
Ripenso alla storiella che mio
nonno raccontava a noi nipotini per lasciarci, credo, un briciolo di sapienza.
A detta sua quando saremo al cospetto del giudice massimo dovremo mostrargli il
palmo delle mani, solo così sapremo se imboccare la porta del paradiso o quella
dell’inferno. Tu gli dici il nome e giri le mani, lui guarda e tocca, se hai
calli si apre la porta luminosa e ariosa, se hai mani liscie da scansafatiche,
si apre il portoncino buio degli inferi, con tutto il suo fetore e calore.
Oggi e solo oggi a mezzo secolo di distanza, colgo l’insegnamento
che minuscolo allora non intendevo. Se allora il senso cattocristiano spostava
tutta l’attenzione sul valore salvifico del sacrificio oggi sento che l’atto di
leggere nelle mani lo spartito della propria musica interiore attiene ad una
idea alta di consapevolezza e conoscenza di sé e dell’altro. Qualcosa che
travalica gli stretti confini d’una cattolicità imposta, dogmatica e asfittica
della quale possiamo bene fare a meno. Quel Dio cristiano di allora è oggi per
me la traduzione di un occhio attento posato sull’essenza di un essere e la sua
capacità di esprimerla.
Se l’homo faber è tale lo deve proprio alla sua capacità di usarle
quelle mani. Attraverso di loro esprime quell’anima che lo distingue dalla
bestia. Riconosco che può essere una concezione superata, ma me ne servo per
raccontare quanto io senta anima-te queste estremità. Del profondo di chi le
possiede ne hanno la forma e il contenuto. Io le mie me le martirizzo
continuamente con quell’atto compulsivo di scrocchiare le nocche che fa venire i
brividi a più d’uno. È il segnale di un disagio, a volte il tormento, che mi
accompagna. Una convivenza non semplice che questa autopunizione chiaramente
esprime. Ripenso alle mani delle persone che mi sono vicine e di come in ogni
paio di loro veda riflesso con chiarezza il profondo del suo essere e come con
questo dizionario legga anche le mani incontrate per caso o appena sfiorate
cogli occhi.
Certo c’è chi le mani le usa per
mestiere e chi invece può o deve farne a meno, ma questo è altro. Equivale all’abilita
usura e idoneità di uno strumento, di un arnese al suo scopo. Le mani che cerco
e trovo io sono altre, prescindono dall’essere capaci o no, cerco la trama di
un discorso che a volte dice l’opposto della lingua perché non risponde ad
impulsi raziordinati, ma compone, spesso dirige, quel complesso sistema segnico
a cui tutto i nostro corpo ricorre per esprimersi, nonostante noi. Basta “solo”
saperlo leggere.
Cos’altro sono le carezze di una
madre al proprio figlio se non l’esplicitazione di un incontro tra profondità,
uno scambio d’intimità che non potrebbe avvenire altrimenti. E quanta nobiltà
nelle usuali strette di mano. Una forma di allaccio che richiederebbe più
riflessione. A tutti ripugna la stretta liscia e molliccia giacchè prefigura
una personalità poco affidabile, sfuggente, senza spessore. Come dire che c’è
poca anima. Altrettanto allarme procurano strette eccessive, ostentatamente
vigorose o prolungate. In queste ci leggo l’equivalente di una corazza entro
cui mascherare e proteggere debolezze d’animo inammissibili a sé stessi. Due
amanti, se tali sono, ovvero due participi presenti del verbo amare, partecipi
e presenti a ciò che esprimono, potrebbero stare ore solo a scambiarsi carezze,
toccamenti e sfioramenti di mani e di anime. Per me l’atto più intimo a cui
tendere. Una sacralità e un valore che i nostri contadini conoscevano bene
allorquando suggellavano patti importanti con una “semplice” stretta di mano.
Gli atti notarili possono essere riscritti, fraintesi, ignorati o impugnati, una
stretta è per sempre, è l’anima, quella alta e nobile che è in gioco.
Anche quando scorgo il corpo
inesatto, dai movimenti incoerenti di un diversamente abile, allorquando lo
stare vicino supera il livello della distrazione superficiale, subito ne cerco le
mani con la vista e, se posso, col tatto. Rivedo F. inchiodata sulla sua rossa
sedia a rotelle da una assoluta incapacità di fare altro, vedo le sue mani
carnose che come farfalle cercano l’aria e il contatto con gli altri. Le ho
sentite morbide e forti insieme, ho percepito la bellezza e la disperazione
della sua anima a dispetto di una esteriorità tanto difficile da decifrare.
Cristo fu inchiodato nei piedi e
nelle mani per ammutolire la sua anima. Certo era quello il rituale punitivo
più crudele all’epoca, ma in quella mutilazione c’è tutta la paura del debole
che nell’andare dei piedi e nel fare delle mani intravvede la forza di chi
avrebbe potuto definitivamente scoperchiare il falso che proteggeva il suo
assassino. Una vera e propria ammissione di inferiorità. Le posture di
preghiera e invocazioni più antiche vogliono le mani come antenne di ricezione
di segnali che dal macro profondo raggiungono il micro profondo di ognuno.
Insomma ci sono molti argomenti
che che mi inducono a credere che ciò che istintivamente solo percepisco possa
avere un briciolo di fondamento. Intanto è vero per me e tanto per ora mi
basta.
Continuo, proseguo a cercare
anime e ad incontrare mani. Devo onestamente ammettere che mani segnate da
esperienze, fatiche o sofferenze sono per me più eloquenti che non intonse
estremità senza tracce. Le prime comunicano ciò che le altre negano, però c’è
anima anche in queste. In fondo anche il gesticolare intenso e spesso biasimato
di noi mediterranei, che tanto ci accomuna alla comunicazione più spontanea e
calda dei popoli del sud del mondo, esprime meglio quell’anima che genuinamente
emerge e che non ce la fa a starsene buona nelle maglie del bon-ton. A dispetto
di posture educatamente composte il cui scopo è solo quello di raffreddare la
relazione e ingabbiare le anime, la cui grandezza e spontaneità ci sgomenta
perché inacapci di mostrarci nudi per quello che siamo.
Trovo incantevoli le manine dei
bambini, quelli piccini piccini, la loro voglia sfrenata di toccare, conoscere
afferrare. Parlano molto prima delle loro lingue e molto di più, esprimendo la
mobilità di un’anima nuova, genuina, immediata. Eppure nonostante tutto questa
pretesa lettura delle mani diffido molto di “lettrici o lettori di mani”
professisonisti, come non credo più tanto nei codici di lettura e
interpretazione in genere (qualsiasi codice) perché imponenti una visione
univoca laddove di unico e definito non c’è nulla. Quello che nelle mani mi
colpisce è l’aura che le circonda, qualcosa che è aldilà e aldiquà della lunghezza
della sua linea della vita.
Chissà se l’ossequio mafioso
“baciamo le mai” ha qualcosa a che fare con tutto questo.
Spesso guardo le mie mani
RispondiEliminache non trovo affascinanti
soprattutto quando provo gli anelli creati dal mio uomo
e noto le dita tozze e sgraziate
Spesso le torturo
mangiucchiando le sue unghie
soprattutto quando sono intenta in una lettura appassionante
o infilandole nel forno distrattamente così da provocare piccole ustioni
i cui segni nel tempo dovrebbero ricordarmi di stare più attenta
Spesso le mie mani si chiudono a pugno
quando la tensione e la rabbia mi assale
per distendersi quando riesco a lasciarmi andare
guidata dalle carezze generose di altre mani, delle sue mani.
Aquila Rossa
http://www.youtube.com/watch?v=DlAaqPCpvp8
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