Lupogrigio andò al mercato e una triglia si comprò…

Anche le triglie mentono,
se
sanno di menta.
Chi frequenta i nostri mercati
rionali lo sa, sfuggire alle grinfie dei mercanti è arte difficile, una
disciplina che richiede palestra e training da primato. Loro, i mercivendoli,
che siano di terra o di mare non differisce, sanno sempre come arrotndare
all’insù le spigolosità della tua spesa, non solo, sono professori d’insistenza
e docenti d’insolenza, capaci come sono di farti sentire pezzente se non riempi
le tue sporte sino a scoppiare delle loro “prelibatezze”. Avvicinare i loro
banchi equivale ad un incontro di judo, devi schivare i colpi restando in piedi
provando a schienare l’avversario, allontanandotene rapido prima di beccati un
altro colpo, magari basso.
In questo scenario da lotta
all’ultimo sangue mi sono tuffato un sabato di questi, che di prefestivo
l’euforia da mercato sale, di qua
e di là dai banchi. Una vera e propria epopea cavalleresco-mercantile. Il mio
intento, illuso e meschino, era di uscirmene vivo con una sola vaschettina di
cozze sgusciate per un tranquillo spaghetto marinaro. Illuso, l’ho detto! E
complice, già, perché pur avvistati i mitili, ho tirato diritto verso altre
prelibatezze che la stagione prolungata, generosa offre a chi ne sa e vuole
approfittare. E così, dopo un doppio slalom tra carrozzini, carrelli, bustoni e
posapiano, poso l’occhio su una montagna di triglioline rosate che esondano il
pur grande banco che cerca di contenerle. Volevo cozze e trovo triglie, in più
il prezzo richiesto era a dir poco magico: con soli due euri (meno di
quattromila di vecchie monete) ti portavi a casa un chilo di pescioletti grandi
non più di un dito, una squisitezza senza pari, la cui freschezza, qualora ne
dubitassi, è subito certificata da un passante che senza pensarci ne afferra un
paio e le fa sparire in bocca socchiudendo gli occhi. E io che aspetto?!... mi
avvicino e penso di chiederne mezzo chilo che per i miei invitati, io e mi
figlia, sono più che abbondante porzione. Ma la palestra di cui prima,
l’allenamento e anche un po’ di golosità mi hanno fatto pronunciare:”un
chilo.”, mentre il pescivendolo già aveva, con le sue manone spugnose,
svalangato nella bustina quantità soverchie di trigliozze. “Un chilo?” mi
intima, quasi ad impallinarmi col suo rimprovero, e a rincarare la dose a me
mentecatto incalza: ”facìm du chil!” (trad. acquistane almeno due di chili di
questo meraviglioso pesce che di meglio non trovi…” Io zitto rimugino che 2+2
fa 4 e quello da me sicuramente vuole tutti e 5 gli euro di carta che io
posseggo, così pensando rispondo con un sorriso da campione del mondo di
ipocrisia: ”ma no, sono solo per me, quindi bastano.” L’ago della bilancia
supera di poco i mille grammi (il “buon peso” è una delle tecniche blanditorie
più diffuse e moleste su queste bilance, la cui precisione è tutta da provare,
ma fa parte del copione e the show must go on). Lui ora chiude la busta,
intasca il corrispettivo e mi porge il pesce. Fiiuuu! Ce l’ho fatta! Oggi
frittura di agostinelle tardive oltre agli spaghetti con le cozze che compro
poco più in la dove le avevo sbirciate prima e dove le trovo però più care del
previsto. Ma il bello è la schermaglia verbale che il venditore accende quando
gli chiedo conto del perché del sovrapprezzo, allorché tenta di convincermi che
quella misera vaschetta oggi e solo oggi contiene una quantità di mitili
sgusciati quasi doppia del solito. Come dire che mi spiegava il miracolo della
cozza per cui nel contenitore solido e sigillato si sono materializzati
magicamente tanti frutti di mare che non ci posso credere. E io non ci credo,
ma pago e me ne vado che ora ho fretta.
Tutto questo per dire che per
quanto squisiti e irresistibili fossero i pescetti, decapati, infarinati,
fritti, salati e mangiati bollenti con tutte le lische (“scorz e tutt per noi
baresani) non siamo, in due, riusciti a finire la porzione, e da qui parte la
ricetta.
La sovrabbondanza alimentare,
come ho imparato da mia madre e mia nonna, non và mai cestinata, c’è sempre una
seconda vita possibile che spesso è più gustosa della prima originaria,
ancorché inattesa. Così per le fritture di mare che tanto ottime sono
ustionanti d’olio quanto saporite rinascono da fredde, appena marinate e magari
aromatizzate. Fanno impallidire anti e post pasti ben più ricercati.
Così le ho limonate
abbondantemente e altrettanto cospicuamente cosparse di coriandolini di menta
appena spiccata dal vaso sul balcone, con le mani e senza metalli aggiunti. Il
verde della menta in frantumi s’inframmischia al rosa ora dorato della
frittura, come un pois psichedelico e rilascia un profumo mentoso che
attorciglia l’asprigno del limone in una danza olfatto-gustativa irresistibile.
Ma non mi lascio sedurre, ora. Ripongo tutto nel frigorifero che con la sua
algida accoglienza rende il tutto inenarrabile, ma da provare assolutamente.
Così ho fatto io il giorno dopo e quello appresso pure, che più sta meglio è. E
spruzzando altra micromenta sopra, la triglia ha mentito come solo lei sa fare.
E buon appetito.
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