STRASCINATI FORTUNATI
Ingredienti:
Cappelli,
il Senatore, e le sue rare e antiche spighe semolate fini. Arricchite di radi
svolazzi di proteine farfalliniche.
L’alba
e la sua luce magica, portatrice di energie vitali.
L’amicizia,
l’unico sentimento che ti lega lasciandoti sciolto.
L’acqua
del rubinetto, il sale del mare, il legno della madia, la fame della pancia.
Fortuna
Q.B. (quanta bellezza), per insaporire il tutto.
Procedimento:
A
volte ci vuole Fortuna e il sano coraggio di ammettersela. A me sono capitati
entrambi. Riconoscersi al centro di una congiuntura favorevole non è sempre
facile, presi come siamo dall’esercizio pignolo e costante delle litanie dei
nostri guai. Lamentare disgrazie, impossibilità, avversità e negativismi viene
più facile che aprire gli occhi ai flussi positivi che comunque ci attraversano
ma che non siamo più capaci di riconoscere. È un piccolo atto d’umiltà che però
ci ricompensa con una enorme dose d’interessi.
Un’amica
che regala abbondanti chili di pregiata semola biologica, della pregiata
cultivar “Senatore Cappelli”, è una fortuna.
Un
amico che raccoglie il dono e lo condivide con me, sapendomi capace quanto lui
di non lasciarsi intimidire da date di scadenze e lotti di produzione, utili
alla circolazione dei capitali, non dei saperi e dei sapori, è una fortuna.
Un’amica
che ti passa parte del suo prezioso Lievito Madre centenario con cui stimolare
la crescita di un ottimo pane, è una fortuna.
Un
amico che mette in circolo ottimo vino biologico, frutto sanguigno di terre manduriane,
è una fortuna.
Una
donna che ama sapori, odori, umori e piaceri forti, pronta ad esserci tutte le
volte che l’occasione lo merita, è una fortuna.
Una
figlia che più figlia non si può, maggiorenne quanto basta per metterti sempre
in un meraviglioso disagio da inadeguatezza, è una fortuna.
E
tanta Fortuna và assecondata, cullata e alimentata, tanto da lasciarsi poi
trasportare. Così, con questo paniere traboccante è bastato poco per una
ricetta gustosa e, restituita la libertà ad alcune farfalline che l’involucro
imprigionava, ho mescolato piano l’acqua con la gialla semola, su cui ho
nevicato poco sale. L’approdo previsto, suggerito da chiacchiere amicali la
sera prima, era la pasta fatta a mano nella misura e forma degli “strascinati”,
una sorta di cavatello strisciato a tre dita invece che uno solo. Quelli che
nell’apparentemente arida nostra murgia chiamano “minghiariìdd” e nell’arso
salento “capunti”. Una bella, callosa e succulenta coppettina di pasta atta a
raccogliere intingoli sugosi, dai ragù alle zuppe.
Lo
stimolo verso questa pastificazione è partito proprio da lei stessa, la semola
del Senatore che, giunta a casa portata per mano dal monello amico, ha iniziato
a soffiarci nelle orecchie acquolinosi suggerimenti e siccome si sa: “l’occasione
fa l’uomo sano” (Lupogrigio), la parte più sana di me ha raccolto la spinta e
mi ha risvegliato ad alba appena sorta, per procedere con gli impasti. Già, gli
impasti plurali, perché oltre quello per gli strascinati c’era da portare a
compimento anche quello del pane che, impastato la sera prima di coricarmi,
mentre nella pentola di coccio pipiava un sapido ragù di cavallo, con farina
per metà integrale e metà banale oltre una buona manciata di lievito madre,
monello anche lui, aveva sfruttato tutte le poco più di sei ore di mio riposo
per raggiungere una forma ed un aspetto tale che non ho avuto più il coraggio
di procedere al secondo impasto. Appena mi ha visto, liberato dai suoi
canovacci protettivi, m’ha chiesto gentilmente d’essere lasciato così, e così
ho fatto, l’ho introdotto nel forno alla massima temperatura ringraziandolo con
una incisione a croce sulla sua guancia gonfia.
E
mentre il calore ingravidava la forma molle d’acqua, farina e lievito,
tramutandola in croccante crosta e
consistente mollica, io inumidivo la collinetta di semola che avevo
alzato sulla madia. Il sole autunnale spuntava appena dietro le sagome senza
stagioni dei palazzi, mentre io spingevo i polsi nell’impasto per addomesticare
i granuli sottili di gialla semola di grano duro verso un impasto liscio,
compatto ed elastico, da cui strascinare la pasta. L’atto trasformativo che
dalle polveri porta all’impasto elastico ha un gusto magico per me, per questo
ci gioco tutte le volte che posso. Questo della pasta poi è un gioco serissimo
perché è quello che ho imparato silenziosamente guardando le mani e le braccia
di mia madre e di mia nonna, le Donne della mia vita, attraverso le quali so
tutto quello che so. Il loro ritmo semplice e solenne, la loro precisione
naturale e amorevole mi hanno regalato molto di più di quanto potessi mai
credere, in cucina e dappertutto. Quando vedevo tirare fuori dalle scansie la
madia, seguita dalle farine e le semole, poi l’acqua, il lievito i matterelli,
capivo che era tempo di piaceri. Il mio, il loro e di tutti quelli che
avrebbero insieme gustato il risultato di tanto amore. Questa lezione mi
appartiene e me la tengo stretta. Da loro, senza mai chiederglielo
direttamente, ho imparato la gestualità istintiva che riduce una palla di
impasto liscio e sfuggevole in un serpentello non più largo di un dito. Un
movimento che mentre arrotola stende, senza forzare pena la rottura. Piano
piano, carezza dopo carezza, il cilindretto si riduce di diametro e si allunga
sulla madia costringendomi a riportarlo in volute che ricordano le anse di un
grande fiume, un fiume di pasta da cui poi, con gesti anche questi mandati a
memoria, staccare a lama di coltello i segmentini da strascinare. Per gli
strascinati la misura è quella di tre dita e ognuno ha le sue con cui spingere
nel rametto molle, tirando verso il cuore cosi che l’impasto si arrotoli su sé
stesso, lasciando la parte liscia all’esterno e la conca rugosa nell’intimo, lì
dove si depositerà il condimento, imprigionato dalle microrilevatezze dovute
all’attrito tra polpastrelli, e legno. Un miracolo di ingegneria pastaia che
nessuno ha mai progettato, ma tantissimi hanno gustato. Così facendo e pensando
ho proseguito sereno, mentre il pane cresceva e marronava nel forno a cui, dopo
la prima mezz’ora, ho attenuato la temperatura per non scottarlo e lasciare
penetrare la cottura sino al centro. Il tempo in certe occasioni non ha peso e
si dilata raccogliendo tutte le energie che a lui riesco a regalare. Il
sincrono con cui ho terminato di strascinare e ho estratto il pane ormai cotto
ha sancito la giustezza della occasione che evidentemente richiedeva
altrettanto giusto compimento. Niente di meglio che imbandire una tavola su cui
celebrare il rito antico e moderno della convivialità, quella vera e amorevole,
appassionata e sincera, così ho chiamato a raccolta le persone che la Fortuna
aveva messo insieme già la sera precedente e che insieme avevano scaturito
tanto desiderio, sicuro che con loro la festa sarebbe stata grande, non
clamorosa e rumorosa, ma quella bella, intima e importante che unisce e
rafforza, legami ed appetiti. Con l’Amico, la Donna, la Figlia ci siamo
lasciati accarezzare dal gusto degli strascinati, ognuno dei quali portava in
seno una bolla di ragù scuro-rosso-piccante, tanto da necessitare un sorso di
quel vino scuro-rosso-eccitante che svuotava i bicchieri. Con i brandelli del
pane mattutino abbiamo infine compiuto l’antico fondamentale rituale di
sbiancatura del piatto, attenti a non lasciare traccia di rosso alcuno, quasi a
volerne evitare il lavaggio, per prolungare il piacere di quel bello stare
insieme a bocca e anime piene. Non restava che brindare alla Fortuna,
l’invitata più importante a questa tavola fatta di sapori, saperi, odori e
umori famigliari, di quella famiglia che si sceglie e non si subisce. Nella
realtà non abbiamo alzato i bicchieri nel gesto classico e formale, non ce n’è
stato bisogno, il brindisi vero l’abbiamo fatto nelle anime che la Fortuna
aveva fatto incontrare.
oltre la Fortuna di avere un Fratello così...
RispondiEliminaed ora in alto i calici...
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