venerdì 12 ottobre 2012


STRASCINATI FORTUNATI


Ingredienti:
Cappelli, il Senatore, e le sue rare e antiche spighe semolate fini. Arricchite di radi svolazzi di proteine farfalliniche.
L’alba e la sua luce magica, portatrice di energie vitali.
L’amicizia, l’unico sentimento che ti lega lasciandoti sciolto.
L’acqua del rubinetto, il sale del mare, il legno della madia, la fame della pancia.
Fortuna Q.B. (quanta bellezza), per insaporire il tutto.

Procedimento:
A volte ci vuole Fortuna e il sano coraggio di ammettersela. A me sono capitati entrambi. Riconoscersi al centro di una congiuntura favorevole non è sempre facile, presi come siamo dall’esercizio pignolo e costante delle litanie dei nostri guai. Lamentare disgrazie, impossibilità, avversità e negativismi viene più facile che aprire gli occhi ai flussi positivi che comunque ci attraversano ma che non siamo più capaci di riconoscere. È un piccolo atto d’umiltà che però ci ricompensa con una enorme dose d’interessi.
Un’amica che regala abbondanti chili di pregiata semola biologica, della pregiata cultivar “Senatore Cappelli”, è una fortuna.
Un amico che raccoglie il dono e lo condivide con me, sapendomi capace quanto lui di non lasciarsi intimidire da date di scadenze e lotti di produzione, utili alla circolazione dei capitali, non dei saperi e dei sapori, è una fortuna.
Un’amica che ti passa parte del suo prezioso Lievito Madre centenario con cui stimolare la crescita di un ottimo pane, è una fortuna.
Un amico che mette in circolo ottimo vino biologico, frutto sanguigno di terre manduriane, è una fortuna.
Una donna che ama sapori, odori, umori e piaceri forti, pronta ad esserci tutte le volte che l’occasione lo merita, è una fortuna.
Una figlia che più figlia non si può, maggiorenne quanto basta per metterti sempre in un meraviglioso disagio da inadeguatezza, è una fortuna.
E tanta Fortuna và assecondata, cullata e alimentata, tanto da lasciarsi poi trasportare. Così, con questo paniere traboccante è bastato poco per una ricetta gustosa e, restituita la libertà ad alcune farfalline che l’involucro imprigionava, ho mescolato piano l’acqua con la gialla semola, su cui ho nevicato poco sale. L’approdo previsto, suggerito da chiacchiere amicali la sera prima, era la pasta fatta a mano nella misura e forma degli “strascinati”, una sorta di cavatello strisciato a tre dita invece che uno solo. Quelli che nell’apparentemente arida nostra murgia chiamano “minghiariìdd” e nell’arso salento “capunti”. Una bella, callosa e succulenta coppettina di pasta atta a raccogliere intingoli sugosi, dai ragù alle zuppe.
Lo stimolo verso questa pastificazione è partito proprio da lei stessa, la semola del Senatore che, giunta a casa portata per mano dal monello amico, ha iniziato a soffiarci nelle orecchie acquolinosi suggerimenti e siccome si sa: “l’occasione fa l’uomo sano” (Lupogrigio), la parte più sana di me ha raccolto la spinta e mi ha risvegliato ad alba appena sorta, per procedere con gli impasti. Già, gli impasti plurali, perché oltre quello per gli strascinati c’era da portare a compimento anche quello del pane che, impastato la sera prima di coricarmi, mentre nella pentola di coccio pipiava un sapido ragù di cavallo, con farina per metà integrale e metà banale oltre una buona manciata di lievito madre, monello anche lui, aveva sfruttato tutte le poco più di sei ore di mio riposo per raggiungere una forma ed un aspetto tale che non ho avuto più il coraggio di procedere al secondo impasto. Appena mi ha visto, liberato dai suoi canovacci protettivi, m’ha chiesto gentilmente d’essere lasciato così, e così ho fatto, l’ho introdotto nel forno alla massima temperatura ringraziandolo con una incisione a croce sulla sua guancia gonfia.
E mentre il calore ingravidava la forma molle d’acqua, farina e lievito, tramutandola in croccante crosta e  consistente mollica, io inumidivo la collinetta di semola che avevo alzato sulla madia. Il sole autunnale spuntava appena dietro le sagome senza stagioni dei palazzi, mentre io spingevo i polsi nell’impasto per addomesticare i granuli sottili di gialla semola di grano duro verso un impasto liscio, compatto ed elastico, da cui strascinare la pasta. L’atto trasformativo che dalle polveri porta all’impasto elastico ha un gusto magico per me, per questo ci gioco tutte le volte che posso. Questo della pasta poi è un gioco serissimo perché è quello che ho imparato silenziosamente guardando le mani e le braccia di mia madre e di mia nonna, le Donne della mia vita, attraverso le quali so tutto quello che so. Il loro ritmo semplice e solenne, la loro precisione naturale e amorevole mi hanno regalato molto di più di quanto potessi mai credere, in cucina e dappertutto. Quando vedevo tirare fuori dalle scansie la madia, seguita dalle farine e le semole, poi l’acqua, il lievito i matterelli, capivo che era tempo di piaceri. Il mio, il loro e di tutti quelli che avrebbero insieme gustato il risultato di tanto amore. Questa lezione mi appartiene e me la tengo stretta. Da loro, senza mai chiederglielo direttamente, ho imparato la gestualità istintiva che riduce una palla di impasto liscio e sfuggevole in un serpentello non più largo di un dito. Un movimento che mentre arrotola stende, senza forzare pena la rottura. Piano piano, carezza dopo carezza, il cilindretto si riduce di diametro e si allunga sulla madia costringendomi a riportarlo in volute che ricordano le anse di un grande fiume, un fiume di pasta da cui poi, con gesti anche questi mandati a memoria, staccare a lama di coltello i segmentini da strascinare. Per gli strascinati la misura è quella di tre dita e ognuno ha le sue con cui spingere nel rametto molle, tirando verso il cuore cosi che l’impasto si arrotoli su sé stesso, lasciando la parte liscia all’esterno e la conca rugosa nell’intimo, lì dove si depositerà il condimento, imprigionato dalle microrilevatezze dovute all’attrito tra polpastrelli, e legno. Un miracolo di ingegneria pastaia che nessuno ha mai progettato, ma tantissimi hanno gustato. Così facendo e pensando ho proseguito sereno, mentre il pane cresceva e marronava nel forno a cui, dopo la prima mezz’ora, ho attenuato la temperatura per non scottarlo e lasciare penetrare la cottura sino al centro. Il tempo in certe occasioni non ha peso e si dilata raccogliendo tutte le energie che a lui riesco a regalare. Il sincrono con cui ho terminato di strascinare e ho estratto il pane ormai cotto ha sancito la giustezza della occasione che evidentemente richiedeva altrettanto giusto compimento. Niente di meglio che imbandire una tavola su cui celebrare il rito antico e moderno della convivialità, quella vera e amorevole, appassionata e sincera, così ho chiamato a raccolta le persone che la Fortuna aveva messo insieme già la sera precedente e che insieme avevano scaturito tanto desiderio, sicuro che con loro la festa sarebbe stata grande, non clamorosa e rumorosa, ma quella bella, intima e importante che unisce e rafforza, legami ed appetiti. Con l’Amico, la Donna, la Figlia ci siamo lasciati accarezzare dal gusto degli strascinati, ognuno dei quali portava in seno una bolla di ragù scuro-rosso-piccante, tanto da necessitare un sorso di quel vino scuro-rosso-eccitante che svuotava i bicchieri. Con i brandelli del pane mattutino abbiamo infine compiuto l’antico fondamentale rituale di sbiancatura del piatto, attenti a non lasciare traccia di rosso alcuno, quasi a volerne evitare il lavaggio, per prolungare il piacere di quel bello stare insieme a bocca e anime piene. Non restava che brindare alla Fortuna, l’invitata più importante a questa tavola fatta di sapori, saperi, odori e umori famigliari, di quella famiglia che si sceglie e non si subisce. Nella realtà non abbiamo alzato i bicchieri nel gesto classico e formale, non ce n’è stato bisogno, il brindisi vero l’abbiamo fatto nelle anime che la Fortuna aveva fatto incontrare.

1 commento:

  1. oltre la Fortuna di avere un Fratello così...

    ed ora in alto i calici...

    link to:
    http://www.youtube.com/watchfeature=player_embedded&v=RZUonmbtVQo#!

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