giovedì 25 ottobre 2012

ANIMANI

ANIMANI

Ho sul comodino un piccolo libro dal titolo per me molto intrigante “L’anima nei piedi”. Il suo contenuto poi no, un mieloso finale inquina il racconto di un viaggio in una tribù indioamericana, con molte belle descrizioni di loro cerimoniali e personaggi, ma che l’autrice ha, ai miei occhi, travisato riportando tutto e solo a sé. Ma come critico letterario io sono peggio di lei come scrittrice e allora lasciamo perdere. La cosa vera è che più di tutta la narrazione il solo titolo mi ha raccontato e fatto riflettere. Spostare l’anima nei piedi è un bell’atto per noi occidentali, spesso chiesizzati, e spessissimo cardiocentrici o cerebrofocalizzati. Mettere l’anima nei piedi: ad un tempo riconoscere le nostre radici e la capacità di muoverle, quello che ci lega alla terra è lo stesso che su di essa ci permettere di andare. Bella e intensa metafora che gli Indiani d’America insieme a tutti i popoli nomadi conoscono bene. Dovremmo farla nostra. Ciò nonostante il bello di questo titolo è come mi abbia portato a pensare a me, a dove colloco io l’anima mia e altrui.
La risposta è che per me l’anima è nelle mani.
Non mi sento sufficientemente nomade da vederla lì, sotto le caviglie, pronta a sostenere e muovere tutto il peso della persona, e non solo quello fisico. Meglio le mani, mobili, leggere, capaci o al contrario ferme, pesanti e inabili, ma pur sempre espressive, per me. Sento che le mie di mani portano la mia anima, la racchiudono a volte, la spingono fuori, altre. Le mie mi ricordano quelle di mia nonna e di mio padre. Un albero genealogico “a portata di mano”. Le estremità della madre di mia madre erano una poesia, commoventi nella loro contorsione, scolpite dall’artrite e pur sempre in moto. Erano, sono, al presente come tutto ciò che i genitori ti donano, il segno stesso della vita e non solo la sua, ma quella di tutti noi, giacchè da lei tutti noi dipendevamo, ma senza pesantezze o obblighi, nella maniera delicata e amorevole che la sua anima era capace di trasmettere. Se lei cucinava la tavola era una festa, se lavorava nei campi avevamo qualcosa da scoprire, assaggiare, toccare. Tutta la mia vita da bambino è passata attraverso le sue dieci piccole e fortissime dita. Mani generose di anima accogliente.
Anche le mie ora vanno verso quelle piegature. Come le sue hanno nocche rigonfie e falangi eterodosse, poco inclini all’incolonnamento e come quelle sono sempre in attività.
Di mio padre porto il disegno a rilievo della geografia venosa che riporta l’esausto sangue bluastro, dalla periferia al centro pulsante e rigenerante, per un altro ennesimo giro di quella giostra vitale che è il nostro sistema circolatorio. Mi ricordo che ammiravo e desideravo quei cunicoli violacei affioranti sui dorsi delle sue mani. Non le ho mai viste strafare, nel senso della pura fatica, ma erano comunque sapienti, adatte. Dai pennelli alle stoviglie. Un ottimo uomo, un grande padre e una grande anima certamente, quella del genitore migliore che mi potesse capitare e in quelle sue mani ci stava tutto questo suo fascino.
Le altre mani importanti sono quelle di mia madre, ma qui il ricordo si fa opaco, annebbiato dalla immagine delle sue spesso ferme e gonfie a palloncino, nel gonfiore di una terapia endovenosa che dilatava tutto ciò che incontrava. Gonfie di dolore direi oggi, come la sua anima, ferita ma vitale.
Di tutte questa mani ricordo le carezze, tenerissime quelle di mia madre, rarissime e perciò preziose quelle di mio padre, ossute e accudenti quelle di mia nonna. Ma non è solo per questa antologia della rimembranza che colloco l’anima di ogni donna e ogni uomo nelle sue mani. È che l’atto di toccare, tatteggiare, prendere, lasciare, racchiude tutto il profondo di ognuno di noi. È lì che poso gli occhi, altri veicoli dell’anima, quando incontro una persona e non solo la prima volta ricavandone l’impressione che spesso è la definitiva, ma sempre ad ogni incontro, perché ogni istante è diverso dall’altro, si cambia e le mani questo lo dicono bene. Difficile barare con loro.
Ripenso alla storiella che mio nonno raccontava a noi nipotini per lasciarci, credo, un briciolo di sapienza. A detta sua quando saremo al cospetto del giudice massimo dovremo mostrargli il palmo delle mani, solo così sapremo se imboccare la porta del paradiso o quella dell’inferno. Tu gli dici il nome e giri le mani, lui guarda e tocca, se hai calli si apre la porta luminosa e ariosa, se hai mani liscie da scansafatiche, si apre il portoncino buio degli inferi, con tutto il suo fetore e calore.
Oggi e solo oggi a mezzo secolo di distanza, colgo l’insegnamento che minuscolo allora non intendevo. Se allora il senso cattocristiano spostava tutta l’attenzione sul valore salvifico del sacrificio oggi sento che l’atto di leggere nelle mani lo spartito della propria musica interiore attiene ad una idea alta di consapevolezza e conoscenza di sé e dell’altro. Qualcosa che travalica gli stretti confini d’una cattolicità imposta, dogmatica e asfittica della quale possiamo bene fare a meno. Quel Dio cristiano di allora è oggi per me la traduzione di un occhio attento posato sull’essenza di un essere e la sua capacità di esprimerla.
Se l’homo faber è tale lo deve proprio alla sua capacità di usarle quelle mani. Attraverso di loro esprime quell’anima che lo distingue dalla bestia. Riconosco che può essere una concezione superata, ma me ne servo per raccontare quanto io senta anima-te queste estremità. Del profondo di chi le possiede ne hanno la forma e il contenuto. Io le mie me le martirizzo continuamente con quell’atto compulsivo di scrocchiare le nocche che fa venire i brividi a più d’uno. È il segnale di un disagio, a volte il tormento, che mi accompagna. Una convivenza non semplice che questa autopunizione chiaramente esprime. Ripenso alle mani delle persone che mi sono vicine e di come in ogni paio di loro veda riflesso con chiarezza il profondo del suo essere e come con questo dizionario legga anche le mani incontrate per caso o appena sfiorate cogli occhi.
Certo c’è chi le mani le usa per mestiere e chi invece può o deve farne a meno, ma questo è altro. Equivale all’abilita usura e idoneità di uno strumento, di un arnese al suo scopo. Le mani che cerco e trovo io sono altre, prescindono dall’essere capaci o no, cerco la trama di un discorso che a volte dice l’opposto della lingua perché non risponde ad impulsi raziordinati, ma compone, spesso dirige, quel complesso sistema segnico a cui tutto i nostro corpo ricorre per esprimersi, nonostante noi. Basta “solo” saperlo leggere.
Cos’altro sono le carezze di una madre al proprio figlio se non l’esplicitazione di un incontro tra profondità, uno scambio d’intimità che non potrebbe avvenire altrimenti. E quanta nobiltà nelle usuali strette di mano. Una forma di allaccio che richiederebbe più riflessione. A tutti ripugna la stretta liscia e molliccia giacchè prefigura una personalità poco affidabile, sfuggente, senza spessore. Come dire che c’è poca anima. Altrettanto allarme procurano strette eccessive, ostentatamente vigorose o prolungate. In queste ci leggo l’equivalente di una corazza entro cui mascherare e proteggere debolezze d’animo inammissibili a sé stessi. Due amanti, se tali sono, ovvero due participi presenti del verbo amare, partecipi e presenti a ciò che esprimono, potrebbero stare ore solo a scambiarsi carezze, toccamenti e sfioramenti di mani e di anime. Per me l’atto più intimo a cui tendere. Una sacralità e un valore che i nostri contadini conoscevano bene allorquando suggellavano patti importanti con una “semplice” stretta di mano. Gli atti notarili possono essere riscritti, fraintesi, ignorati o impugnati, una stretta è per sempre, è l’anima, quella alta e nobile che è in gioco.
Anche quando scorgo il corpo inesatto, dai movimenti incoerenti di un diversamente abile, allorquando lo stare vicino supera il livello della distrazione superficiale, subito ne cerco le mani con la vista e, se posso, col tatto. Rivedo F. inchiodata sulla sua rossa sedia a rotelle da una assoluta incapacità di fare altro, vedo le sue mani carnose che come farfalle cercano l’aria e il contatto con gli altri. Le ho sentite morbide e forti insieme, ho percepito la bellezza e la disperazione della sua anima a dispetto di una esteriorità tanto difficile da decifrare.
Cristo fu inchiodato nei piedi e nelle mani per ammutolire la sua anima. Certo era quello il rituale punitivo più crudele all’epoca, ma in quella mutilazione c’è tutta la paura del debole che nell’andare dei piedi e nel fare delle mani intravvede la forza di chi avrebbe potuto definitivamente scoperchiare il falso che proteggeva il suo assassino. Una vera e propria ammissione di inferiorità. Le posture di preghiera e invocazioni più antiche vogliono le mani come antenne di ricezione di segnali che dal macro profondo raggiungono il micro profondo di ognuno.
Insomma ci sono molti argomenti che che mi inducono a credere che ciò che istintivamente solo percepisco possa avere un briciolo di fondamento. Intanto è vero per me e tanto per ora mi basta.
Continuo, proseguo a cercare anime e ad incontrare mani. Devo onestamente ammettere che mani segnate da esperienze, fatiche o sofferenze sono per me più eloquenti che non intonse estremità senza tracce. Le prime comunicano ciò che le altre negano, però c’è anima anche in queste. In fondo anche il gesticolare intenso e spesso biasimato di noi mediterranei, che tanto ci accomuna alla comunicazione più spontanea e calda dei popoli del sud del mondo, esprime meglio quell’anima che genuinamente emerge e che non ce la fa a starsene buona nelle maglie del bon-ton. A dispetto di posture educatamente composte il cui scopo è solo quello di raffreddare la relazione e ingabbiare le anime, la cui grandezza e spontaneità ci sgomenta perché inacapci di mostrarci nudi per quello che siamo.
Trovo incantevoli le manine dei bambini, quelli piccini piccini, la loro voglia sfrenata di toccare, conoscere afferrare. Parlano molto prima delle loro lingue e molto di più, esprimendo la mobilità di un’anima nuova, genuina, immediata. Eppure nonostante tutto questa pretesa lettura delle mani diffido molto di “lettrici o lettori di mani” professisonisti, come non credo più tanto nei codici di lettura e interpretazione in genere (qualsiasi codice) perché imponenti una visione univoca laddove di unico e definito non c’è nulla. Quello che nelle mani mi colpisce è l’aura che le circonda, qualcosa che è aldilà e aldiquà della lunghezza della sua linea della vita.
Chissà se l’ossequio mafioso “baciamo le mai” ha qualcosa a che fare con tutto questo.


venerdì 12 ottobre 2012


STRASCINATI FORTUNATI


Ingredienti:
Cappelli, il Senatore, e le sue rare e antiche spighe semolate fini. Arricchite di radi svolazzi di proteine farfalliniche.
L’alba e la sua luce magica, portatrice di energie vitali.
L’amicizia, l’unico sentimento che ti lega lasciandoti sciolto.
L’acqua del rubinetto, il sale del mare, il legno della madia, la fame della pancia.
Fortuna Q.B. (quanta bellezza), per insaporire il tutto.

Procedimento:
A volte ci vuole Fortuna e il sano coraggio di ammettersela. A me sono capitati entrambi. Riconoscersi al centro di una congiuntura favorevole non è sempre facile, presi come siamo dall’esercizio pignolo e costante delle litanie dei nostri guai. Lamentare disgrazie, impossibilità, avversità e negativismi viene più facile che aprire gli occhi ai flussi positivi che comunque ci attraversano ma che non siamo più capaci di riconoscere. È un piccolo atto d’umiltà che però ci ricompensa con una enorme dose d’interessi.
Un’amica che regala abbondanti chili di pregiata semola biologica, della pregiata cultivar “Senatore Cappelli”, è una fortuna.
Un amico che raccoglie il dono e lo condivide con me, sapendomi capace quanto lui di non lasciarsi intimidire da date di scadenze e lotti di produzione, utili alla circolazione dei capitali, non dei saperi e dei sapori, è una fortuna.
Un’amica che ti passa parte del suo prezioso Lievito Madre centenario con cui stimolare la crescita di un ottimo pane, è una fortuna.
Un amico che mette in circolo ottimo vino biologico, frutto sanguigno di terre manduriane, è una fortuna.
Una donna che ama sapori, odori, umori e piaceri forti, pronta ad esserci tutte le volte che l’occasione lo merita, è una fortuna.
Una figlia che più figlia non si può, maggiorenne quanto basta per metterti sempre in un meraviglioso disagio da inadeguatezza, è una fortuna.
E tanta Fortuna và assecondata, cullata e alimentata, tanto da lasciarsi poi trasportare. Così, con questo paniere traboccante è bastato poco per una ricetta gustosa e, restituita la libertà ad alcune farfalline che l’involucro imprigionava, ho mescolato piano l’acqua con la gialla semola, su cui ho nevicato poco sale. L’approdo previsto, suggerito da chiacchiere amicali la sera prima, era la pasta fatta a mano nella misura e forma degli “strascinati”, una sorta di cavatello strisciato a tre dita invece che uno solo. Quelli che nell’apparentemente arida nostra murgia chiamano “minghiariìdd” e nell’arso salento “capunti”. Una bella, callosa e succulenta coppettina di pasta atta a raccogliere intingoli sugosi, dai ragù alle zuppe.
Lo stimolo verso questa pastificazione è partito proprio da lei stessa, la semola del Senatore che, giunta a casa portata per mano dal monello amico, ha iniziato a soffiarci nelle orecchie acquolinosi suggerimenti e siccome si sa: “l’occasione fa l’uomo sano” (Lupogrigio), la parte più sana di me ha raccolto la spinta e mi ha risvegliato ad alba appena sorta, per procedere con gli impasti. Già, gli impasti plurali, perché oltre quello per gli strascinati c’era da portare a compimento anche quello del pane che, impastato la sera prima di coricarmi, mentre nella pentola di coccio pipiava un sapido ragù di cavallo, con farina per metà integrale e metà banale oltre una buona manciata di lievito madre, monello anche lui, aveva sfruttato tutte le poco più di sei ore di mio riposo per raggiungere una forma ed un aspetto tale che non ho avuto più il coraggio di procedere al secondo impasto. Appena mi ha visto, liberato dai suoi canovacci protettivi, m’ha chiesto gentilmente d’essere lasciato così, e così ho fatto, l’ho introdotto nel forno alla massima temperatura ringraziandolo con una incisione a croce sulla sua guancia gonfia.
E mentre il calore ingravidava la forma molle d’acqua, farina e lievito, tramutandola in croccante crosta e  consistente mollica, io inumidivo la collinetta di semola che avevo alzato sulla madia. Il sole autunnale spuntava appena dietro le sagome senza stagioni dei palazzi, mentre io spingevo i polsi nell’impasto per addomesticare i granuli sottili di gialla semola di grano duro verso un impasto liscio, compatto ed elastico, da cui strascinare la pasta. L’atto trasformativo che dalle polveri porta all’impasto elastico ha un gusto magico per me, per questo ci gioco tutte le volte che posso. Questo della pasta poi è un gioco serissimo perché è quello che ho imparato silenziosamente guardando le mani e le braccia di mia madre e di mia nonna, le Donne della mia vita, attraverso le quali so tutto quello che so. Il loro ritmo semplice e solenne, la loro precisione naturale e amorevole mi hanno regalato molto di più di quanto potessi mai credere, in cucina e dappertutto. Quando vedevo tirare fuori dalle scansie la madia, seguita dalle farine e le semole, poi l’acqua, il lievito i matterelli, capivo che era tempo di piaceri. Il mio, il loro e di tutti quelli che avrebbero insieme gustato il risultato di tanto amore. Questa lezione mi appartiene e me la tengo stretta. Da loro, senza mai chiederglielo direttamente, ho imparato la gestualità istintiva che riduce una palla di impasto liscio e sfuggevole in un serpentello non più largo di un dito. Un movimento che mentre arrotola stende, senza forzare pena la rottura. Piano piano, carezza dopo carezza, il cilindretto si riduce di diametro e si allunga sulla madia costringendomi a riportarlo in volute che ricordano le anse di un grande fiume, un fiume di pasta da cui poi, con gesti anche questi mandati a memoria, staccare a lama di coltello i segmentini da strascinare. Per gli strascinati la misura è quella di tre dita e ognuno ha le sue con cui spingere nel rametto molle, tirando verso il cuore cosi che l’impasto si arrotoli su sé stesso, lasciando la parte liscia all’esterno e la conca rugosa nell’intimo, lì dove si depositerà il condimento, imprigionato dalle microrilevatezze dovute all’attrito tra polpastrelli, e legno. Un miracolo di ingegneria pastaia che nessuno ha mai progettato, ma tantissimi hanno gustato. Così facendo e pensando ho proseguito sereno, mentre il pane cresceva e marronava nel forno a cui, dopo la prima mezz’ora, ho attenuato la temperatura per non scottarlo e lasciare penetrare la cottura sino al centro. Il tempo in certe occasioni non ha peso e si dilata raccogliendo tutte le energie che a lui riesco a regalare. Il sincrono con cui ho terminato di strascinare e ho estratto il pane ormai cotto ha sancito la giustezza della occasione che evidentemente richiedeva altrettanto giusto compimento. Niente di meglio che imbandire una tavola su cui celebrare il rito antico e moderno della convivialità, quella vera e amorevole, appassionata e sincera, così ho chiamato a raccolta le persone che la Fortuna aveva messo insieme già la sera precedente e che insieme avevano scaturito tanto desiderio, sicuro che con loro la festa sarebbe stata grande, non clamorosa e rumorosa, ma quella bella, intima e importante che unisce e rafforza, legami ed appetiti. Con l’Amico, la Donna, la Figlia ci siamo lasciati accarezzare dal gusto degli strascinati, ognuno dei quali portava in seno una bolla di ragù scuro-rosso-piccante, tanto da necessitare un sorso di quel vino scuro-rosso-eccitante che svuotava i bicchieri. Con i brandelli del pane mattutino abbiamo infine compiuto l’antico fondamentale rituale di sbiancatura del piatto, attenti a non lasciare traccia di rosso alcuno, quasi a volerne evitare il lavaggio, per prolungare il piacere di quel bello stare insieme a bocca e anime piene. Non restava che brindare alla Fortuna, l’invitata più importante a questa tavola fatta di sapori, saperi, odori e umori famigliari, di quella famiglia che si sceglie e non si subisce. Nella realtà non abbiamo alzato i bicchieri nel gesto classico e formale, non ce n’è stato bisogno, il brindisi vero l’abbiamo fatto nelle anime che la Fortuna aveva fatto incontrare.

martedì 2 ottobre 2012

Lupogrigio andò al mercato e una triglia si comprò…

 Anche le triglie mentono,
se sanno di menta.

Chi frequenta i nostri mercati rionali lo sa, sfuggire alle grinfie dei mercanti è arte difficile, una disciplina che richiede palestra e training da primato. Loro, i mercivendoli, che siano di terra o di mare non differisce, sanno sempre come arrotndare all’insù le spigolosità della tua spesa, non solo, sono professori d’insistenza e docenti d’insolenza, capaci come sono di farti sentire pezzente se non riempi le tue sporte sino a scoppiare delle loro “prelibatezze”. Avvicinare i loro banchi equivale ad un incontro di judo, devi schivare i colpi restando in piedi provando a schienare l’avversario, allontanandotene rapido prima di beccati un altro colpo, magari basso.
In questo scenario da lotta all’ultimo sangue mi sono tuffato un sabato di questi, che di prefestivo l’euforia  da mercato sale, di qua e di là dai banchi. Una vera e propria epopea cavalleresco-mercantile. Il mio intento, illuso e meschino, era di uscirmene vivo con una sola vaschettina di cozze sgusciate per un tranquillo spaghetto marinaro. Illuso, l’ho detto! E complice, già, perché pur avvistati i mitili, ho tirato diritto verso altre prelibatezze che la stagione prolungata, generosa offre a chi ne sa e vuole approfittare. E così, dopo un doppio slalom tra carrozzini, carrelli, bustoni e posapiano, poso l’occhio su una montagna di triglioline rosate che esondano il pur grande banco che cerca di contenerle. Volevo cozze e trovo triglie, in più il prezzo richiesto era a dir poco magico: con soli due euri (meno di quattromila di vecchie monete) ti portavi a casa un chilo di pescioletti grandi non più di un dito, una squisitezza senza pari, la cui freschezza, qualora ne dubitassi, è subito certificata da un passante che senza pensarci ne afferra un paio e le fa sparire in bocca socchiudendo gli occhi. E io che aspetto?!... mi avvicino e penso di chiederne mezzo chilo che per i miei invitati, io e mi figlia, sono più che abbondante porzione. Ma la palestra di cui prima, l’allenamento e anche un po’ di golosità mi hanno fatto pronunciare:”un chilo.”, mentre il pescivendolo già aveva, con le sue manone spugnose, svalangato nella bustina quantità soverchie di trigliozze. “Un chilo?” mi intima, quasi ad impallinarmi col suo rimprovero, e a rincarare la dose a me mentecatto incalza: ”facìm du chil!” (trad. acquistane almeno due di chili di questo meraviglioso pesce che di meglio non trovi…” Io zitto rimugino che 2+2 fa 4 e quello da me sicuramente vuole tutti e 5 gli euro di carta che io posseggo, così pensando rispondo con un sorriso da campione del mondo di ipocrisia: ”ma no, sono solo per me, quindi bastano.” L’ago della bilancia supera di poco i mille grammi (il “buon peso” è una delle tecniche blanditorie più diffuse e moleste su queste bilance, la cui precisione è tutta da provare, ma fa parte del copione e the show must go on). Lui ora chiude la busta, intasca il corrispettivo e mi porge il pesce. Fiiuuu! Ce l’ho fatta! Oggi frittura di agostinelle tardive oltre agli spaghetti con le cozze che compro poco più in la dove le avevo sbirciate prima e dove le trovo però più care del previsto. Ma il bello è la schermaglia verbale che il venditore accende quando gli chiedo conto del perché del sovrapprezzo, allorché tenta di convincermi che quella misera vaschetta oggi e solo oggi contiene una quantità di mitili sgusciati quasi doppia del solito. Come dire che mi spiegava il miracolo della cozza per cui nel contenitore solido e sigillato si sono materializzati magicamente tanti frutti di mare che non ci posso credere. E io non ci credo, ma pago e me ne vado che ora ho fretta.
Tutto questo per dire che per quanto squisiti e irresistibili fossero i pescetti, decapati, infarinati, fritti, salati e mangiati bollenti con tutte le lische (“scorz e tutt per noi baresani) non siamo, in due, riusciti a finire la porzione, e da qui parte la ricetta.
La sovrabbondanza alimentare, come ho imparato da mia madre e mia nonna, non và mai cestinata, c’è sempre una seconda vita possibile che spesso è più gustosa della prima originaria, ancorché inattesa. Così per le fritture di mare che tanto ottime sono ustionanti d’olio quanto saporite rinascono da fredde, appena marinate e magari aromatizzate. Fanno impallidire anti e post pasti ben più ricercati.
Così le ho limonate abbondantemente e altrettanto cospicuamente cosparse di coriandolini di menta appena spiccata dal vaso sul balcone, con le mani e senza metalli aggiunti. Il verde della menta in frantumi s’inframmischia al rosa ora dorato della frittura, come un pois psichedelico e rilascia un profumo mentoso che attorciglia l’asprigno del limone in una danza olfatto-gustativa irresistibile. Ma non mi lascio sedurre, ora. Ripongo tutto nel frigorifero che con la sua algida accoglienza rende il tutto inenarrabile, ma da provare assolutamente. Così ho fatto io il giorno dopo e quello appresso pure, che più sta meglio è. E spruzzando altra micromenta sopra, la triglia ha mentito come solo lei sa fare. E buon appetito.