martedì 5 marzo 2013

OLTRE IL GIARDINO
Questo il titolo della mostra di foto e video
su un pezzo della mia, nostra storia e vita.
Daniele Trevisi ha il merito di non demordere. E io l'ho abbracciato.

All’accampamento arrivavo a cavallo. Non era di razza. Senza parafanghi, con la catena sempre un po’ lenta e con l’apparato frenante in evidente affanno. Però ci ero affezionato e andava. La poggiavo dietro una panchina o ad un albero e mi muovevo alla ricerca della mia tribù. La cercavo tra le tante che si accampavano lì. Nel cuore della città, nel cuore di ognuno di noi.
C’era la tribù degli “sconvolti”, quella degli “elleci”, “la quarta”, “ipunk”, “gliao” e dietro l’angolo gli “emmellesse”. Amici-nemici giurati. Col tempo alcuni gruppi mutarono, altri si mescolarono. Ci furono i “regghe”, gli sconvolti si trasformarono ne “itossici”. Al fuoco indiano avevamo sostituito l’acqua urbana di una fontana sempre spenta, la cui vasca era mare e cerchio per cerimonie di una religiosità tanto stramba da essere creduta. Ogni tribù aveva i suoi rituali, le sue uniformi, le sue stagioni.
Io arrivavo dall’altra parte del fiume. Di ferro e traversine. La mia, la nostra, era la tribù  dei “poggiofranchi”, enclave rossa e resistente in territorio nero e nemico. Un avamposto di anarchie, fumi, politiche e parole che si muoveva in branco. E il punto di massimo incontro era sempre l’accampamento del Giardino. Tutti, diversi e divisi, fratelli e nemici avevamo l’orgoglio di “essere-del-giardino”. Dove il verbo all’infinito indica un’appartenenza vera. Dal Giardino partivano i segnali per tutte le tribù. Chiamate a raccolta alle quali nessuno si esimeva, perché la partecipazione era una esperienza viva alla quale tutti rispondevamo. Sia che si trattasse di azioni di passione politica, che di desiderio d’evasione. Tanto di adunate assolate su spiagge liberate che riunioni affumicate in tuguri politicizzati.
E io non ero un capo, piuttosto un pari tra pari, come tanti di noi. C’erano i capi, e lo sapevamo, eppure tutti accettavamo un sereno assoggettamento sapendo che però poteva tramutarsi in diffidenza e contrapposizione, sino al conflitto. Per poi rientrare nel panorama multicolorato e multipensante del Giardino. E anche se non ero un capo ho sperimentato la fratellanza che era legge maestra nell’accampamento. Fu quando agii l’ennesimo esproprio proletario in libreria, per assicurarmi il libro sui fatti di Bologna del settantasette. Altre tribù, altre libertà. Colto in flagrante da un solerte e spaventatissimo responsabile, fui bloccato col libro nelle mutande e trasferito in questura. Solo che la libreria era troppo vicina al Giardino perché la cosa passasse inosservata. Alla mia uscita in mezzo ad una minuta pattuglia di PiEsse trovai un fiume di compagni agitati che gridavano la mia liberazione. Toni minacciosi che in quei giorni lasciavano presagire un passaggio all’atto immediato. Tanta solidale partecipazione meravigliò e spaventò anche me, non capo e non troppo avvezzo a passeggiate in volante a sirene spiegate. Così in questura, dopo foto, impronte e generalità mi affrettai a negare ogni appartenenza politica, cercando di dirottare il mio esproprio verso un atto inconsulto di giovane squattrinato. Fattostà che il ringhiare dei miei compagni ebbe il suo esito e l’intervento immediato del legale della libreria scagionante, mi liberò dalla sicura cella verso l’abbraccio caloroso dell’accampamento a cui resi grazie.
Piccole storie che fanno Storia. La mia. In quell’accampamento mi sentivo sempre a casa, accolto e difeso, anche da chi non conoscevo, perchè appartenente alla stessa tribù. Ci andavo per parlare, ascoltare, giocare, fumare, passeggiare, sedere, organizzare, lottare, piangere, ridere. Vivere.
E oggi dopo tante lune, molte stagioni e infinite tribù mi sento ancora “uno-del-giardino”. Lo sa bene mia figlia alla quale recito i miei mantra di appartenenza, incurante dei suoi sbuffi. Però vedo che più spesso mi ascolta, perché è stata una bella vita, una bella età. Una fonte alla quale mi sono abbeverato a pieni sorsi per arrivare fino ad oggi, sano,  salvo e con la voglia di vivere e giocare di allora. Spero per lei e tanti come lei che ritrovino il loro accampamento, che riconoscano la loro tribù, che la sappiamo amare e anche odiare. Comunque la vivano. Che abbiano, come noi, la loro meglio gioventù.

4 commenti:

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  3. Mi sono rivisto riflesso per immagini in uno specchio che non ha età ma tanta Buona Memoria.
    La Memoria di chi ha vissuto... schierato dalla parte giusta... insieme ad altri... tanti altri... Fraterni Compagni insieme ai quali si è partecipato a scrivere... con ardore convinzioni e motivazioni profonde... la storia di una città dormiente in un paese distratto all'insaputa di chi ha sempre osteggiato... tentando di ignorare i "perchè"... i nostri "perchè"... che allora come oggi anche quelli "dopo di noi" che hanno raccolto il testimone della protesta e ieri come oggi sempre in direzione ostinata e contraria continuano... con decsione... a sbattere sotto il naso di "lor signori" ottusamente asserragliati a difesa di certi privilegi... sempre quelli.
    La cifra di quel viaggio... percorso per immagini nella memoria attraverso i luoghi... sta nella Bellezza... dei volti... dei corpi... dei sorrisi... dei gesti... delle parole e delle grida che ti emergono dentro(per chi li ha vissuti) come eco lontano dietro le immagini ed ancora... oggi come allora... urlano la rabbia contro le menzogne della eterna sempiterna fantomatica crisi economico-finanziaria sbandierata sempre e fabbricata ad arte per tenere nel terrore e schiacciati sotto il peso di responsabilità non loro la povera gente... sempre schiava di governi cinici e bari che si presentano con "colorazioni" cangiati sempre diverse eppure sempre così uguali fra loro.
    Il '74(1974 secolo corso)CORTEO CONTRO AUSTERITY
    Il '77(1977 " " )MATEMATICA OCCUPATA
    A novembre l'uccisione per mano fascista di Benedetto Petrone... il nostro compagno Benny... che per pudore e giusto rispetto della memoria non appare nelle foto ma al Giardino c'era!... eccome!... era il più assiduo frequentatore di quei luoghi sempre presente allora come oggi anche se ce l'hanno ammazzato...
    E poi gli altri... tanti altri... che non ci sono più... Annarosa... Vito... Jolly... Paolo... Brigitte.
    Di tutto questo ho sentito forte l'abbraccio... doloroso e caloroso insieme... IO C'ERO... e continuo ad esserci... e professare il credo anarchico che ho imparato anche al giardino anche se noi eravamo "icompagnidipoggiofranco"(tutt'attaccato) imparammo l'importanza della Solidarietà fra le Persone Belle... la Condivisione dei luoghi e delle cose e dell'esperienze al di là delle conoscenze e delle coscienze.
    "Oltre il giardino" sta anche per dopo quell'epopea felice oltre tutto e noi lo possiamo testimoniare eravamo... Belli... Bellissimi e contenti di essere Liberi... allora come oggi...

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  4. Ringrazio Daniele Trevisi e Gianni Signorile, per aver dato a vario titolo l’opportunità di far emergere una storia ‘sommersa’ di un luogo di Bari, una delle tante storie che questa città attende l’emersione in una scrittura a più voci, e che in questo momento ha assunto il bel nome di ‘Oltre il giardino’.

    Più che un giardino, piazza Umberto era per NOI un ‘molo’ su un lago magico, una specie di porto su un ritaglio di mare, a volte turbolento, altre volte sognante, altre ancora placido e lento. Forse lo era già prima di NOI, poiché si dice che la fontana sia stata costruita quando a Bari arrivò l’acqua, quell’acqua tanto desiderata dal Sud per calmare la sua sete millenaria. Una sete legata non solo all’acqua ma a qualcosa di più, o a qualcosa che trova nell’acqua la materia più concreta per esprimere un senso molto più grande e vario, quanto un mare. Quindi una specie di ninfa delle acque o un demone acquatico ha sempre abitato quel luogo, e in qualche modo si può dire che possedesse anche NOI. Diciamo questo perché il giardino era un avamposto della città, e allo stesso tempo un grembo, dove era possibile rinfrescarsi la mente, rifugiarsi, rimuginare, pensare, escogitare, sperare, confrontarsi, sapere, imparare, odiare, amare, scappare, progettare, ritornare, annoiarsi, ricordare, allucinare, vincere la solitudine, abbandonarsi in compagnia alla solitudine, maturare, ubriacarsi, perdersi, ritrovarsi, farsi coraggio, e altro ancora. Un ‘molo’ sull’acqua, da cui partivano tante cose, e tante cose arrivavano, passavano, rimanevano e talvolta scomparivano. Il contenuto di queste cose poteva essere di genere musicale, artistico, politico, letterario, esistenziale; dal livello più crudo e volgare a quello più sofisticato ed elitario. Un centro, che NOI avevamo eletto a centro del mondo. Periferico, ma sempre un centro. Il NOSTRO trampolino di lancio nella vita.

    Cos’è rimasto di tutto questo ? Quel demone o quella ninfa non presiedono più un luogo frequentato dalla gioventù della città, che NOI rappresentavamo, a nostro modo e con orgoglio. E’ rimasto pur sempre un luogo di arrivi e di partenze, ma di gente dell’Est o del Sud del mondo, ossia dei luoghi da cui proviene la nuova ondata di futuro, buono o cattivo, che il presente ci offre. Di NOI è rimasto ben poco, nel senso che non sono rimaste tracce di eredità. Sarà perché è nella natura di questa città, ma anche di questa strana nazione a cui apparteniamo, il cancellare con velocità le tracce di memoria, come pure il cancellare i segni della primavera della vita, coprendo di severità e oppressione la ‘meglio gioventù’. NOI credevamo in questa primavera e speravamo di farla durare per sempre, come se avessimo il potere di cambiare il corso della storia, e di riscattare finalmente il Sud assetato e terrone con i pensieri di Marx, la voce dei Doors, le frasi di Pavese e di Pasolini, i capelli di Hendrix o dei Led Zeppelin, i disegni delle copertine dei dischi. NOI terroni e cafoni, a nostro modo illuminati e giacobini, vivevamo il desiderio congiunto della ‘meglio gioventù’ e della migliore delle città, che è quello di portare il luogo di nascita in giro per il mondo, e il mondo nel nostro luogo di nascita.

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