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Cime di rape tra foglie d’ulivo
Dovete avere la zia, la cui
nascita ventennale, in quel ventennio lì, ha virato il cattolico Anna nel
marziale Imperia.
Dovete avere questa zia, le cui
meringhe alle noci sono la più attesa delle comete natalizie, capaci di
illuminare la via del gusto verso il bambinello che è nella nostra culla più
intima.
È lei, ventennale ed epifanica,
che mi ha insegnato come. In un pomeriggio, appena doppiato il capo di fine
d’anno, quando ancora ci si scambia doni e affetti. Così tra le chiacchiere che
accompagnano la presa della meringa è venuto alla bocca il parlare di pasta
fatta in casa con le mani proprie. Lei, la zia, è donna di parole e di fatti e,
nel mentre ascoltava il mio racconto di pastaio novello, tutto preso dalla sorpresa
di riuscire ad arrotolare cilindretti di pasta intorno al ferretto benedetto
(proviene da luoghi santi) o di vedere spuntare abbozzi di orecchiette dal
coltello appena strascinato sul legno della madia, lei accennava, sorniona ed
invitante, al suo formato di pasta ideale all’accoppiamento con la nostrale
prelibatezza nota col nome di cime di rape.
Sotto gli occhi compiaciuti e
complici del marito suo, zio mio, Lillino poi maturato Nicola, mi spiegava,
serena e sicura, che questa sua trovata rendeva alle rape maggiore gloria che
le pur famose, ma per noi abusate, orecchiette. Ignorando, o forse no, di
lanciare una bomba al fulmicotone contro il baluardo, la roccaforte della
nostra baresità gastronomica, la zia raccontava che per lei con le rape non più
orecchiette, la cui concava rugosità meglio si presta ad intingoli sugosi e
raguosi, bensì “foglie d’ulivo”, disegno di pasta la cui forma aperta meglio
abbraccia la foglia e il suo verde sapore.
Il mio sguardo di curiosa
meraviglia è stato il detonatore per la sua esplosione di concretezza. Dalle
parole ai fatti e, continuando a parlarmi ed ammaliarmi mi conduceva alla sua
cucina bella e calorosa, mentre io, pasciuto topolino, seguivo la mia pifferaia
magica. Qui, come nelle belle cucine d’una volta e qualcuna anche di oggi, un
bel tavoliere è sempre a portata di mani operose e su questo tavolo operatorio
stava per svelarmi la magia.
Con poche, all’apparenza
noncuranti mosse, collaborata dallo zio-marito, assistente e controllante, ha
impastato poca semola e farina con l’acqua calda. Le dosi precise sono: semola
rimacinata, un tot; farina bianca, meno di un tot e acqua calda di rubinetto
qubbì. In men che non si dica e non si veda, il vulcanetto giallo semola si è
trasformato in pastella melmosa per poi assumere le sembianze di pallotta
morbido-elastica, da cui convertire uno strappo nel serpentello classico della
pasta fatta in casa a mano.
Mentre le carezze rotolanti delle
sue mani aduse aggiungevano centimetri alla lunghezza del cilindretto,
riducendone lo spessore, lei proseguiva l’argomentazione di cui prima e della
quale stava per darmene riprova tangibile e gustabile. Con un coltello,
magicamente comparsole tra le mani, ha iniziato la chirurgia, sotto gli occhi
curiosi del nipote, io, e soddisfatto del marito lillino-nicola.
E qui c’è il trucco, la sapiente
prestidigitazione. Il taglio, la cesura, il colpo di bisturi che ne stacca lo
gnocchetto bastante, và fatto in obliquo. La lama deve tagliare “di sguincio”
il serpentello, cosicché si abbia tra le dita un piccolo rombetto che va
strascinato delicatamente, avendo cura di fermarne la parte superiore col dito,
aldilà della lama del coltello, srotololando il resto.
L’effetto è sorprendente. Il
rombo-cilindroide si trasforma in una fogliolina rugosa dai lati appena
arrotolati e dai pizzetti pizzuti. Se avete in mente una foglia d’ulivo caduta
per terra, perciò appena secca, avete visualizzato il risultato. Quella è verde
argento, questa giallo paglino. Alla vista di tanta evoluzione appare chiaro, e
la zia lo sapeva, che le parole non sarebbero bastate mai. Inoltre la
naturalezza dei suoi gesti, rendeva il tutto ancora più estatico. Nonostante
lei si schernisse per il risulatato a suo dire insoddisfacente per l’eccesso di
umidità dell’impasto dovuto alla fretta, io ero colto da folgorazione. Dovevo
provare subito. Atto compulsivo, lo so e me lo coccolo.
Salutavo i caldi parenti e già
pregustavo il rientro verso la prova provata di tanta acquolina. Rincasavo con
le meringhe tra le mani e le foglie d’ulivo negli occhi. Una volta richiusomi
la porta domestica alle spalle il passaggio dal pensiero all’azione è stato
naturale. Cercando di ripetere il film appena visto, ho impastato ed allungato
il rametto di morbida pasta per poi accingermi alla fase chirurgica che è
prodromica all’esito pasto-ulivoso.
Non posso non dire che quasi la
prima metà del panetto se n’è andato in prove fallimentari. Strappi, strisci,
sfilacci e pallottoline, ma di foglie d’ulivo neanche l’ombra. Poi, a poco a
poco, l’ulivo ha iniziato a fogliare e le prime forme ad ogiva allungata e
appuntita sono comparse da sotto il coltello che cercavo di addomesticare.
Riuscite le prime, le seconde, le terze, il resto è venuto da sé. A poco a poco
l’altro tavoliere, quello dell’asciugatura, s’è colmato di foglioline come
cadute dalla chioma di un albero giallo semola. Le ho accarezzate e le ho
lasciate riposare il necessario perché perdessero parte delle loro umidità per
stare secche pronte al tuffo nella piscina d’acqua bollente che le resuscita a
cottura.
A questo punto è tempo di rape.
Dovete avere l’orto. Quello
privato, piccolo e intimo. Quello sociale, grande e accogliente. Quello
monello, medio e generoso. Quello che volete purchè vi consenta l’atto della
raccolta, l’unico capace di predisporre al sapore buono verso un dono ricevuto.
E se l’orto non c’è, che almeno cime e foglie siano colte dal banco del
mercato, quello vero dove vivono persone, esseri caldi, dove l’atto d’acquisto
è accompagnato ancora da scambi calorosi di parole e occhiate, incontri e
scontri, tutti atti vitali necessari, al contrario della ritualità mortifera,
autistica e desolante del vagare da zombie nella corsie di supermercati che di
“super” hanno solo l’alienazione.
Colle rape tra le mani, compite
l’atto purificatore della pulitura, separando le cime dalle foglie che, se vi
piacciono calerete nell’acqua prima delle suddette per poi condire tutto
insieme, e se no ve le tenete da parte per una bella padellata di rape stufate
con cui contornare la tavola o farcire pizze e calzoni.
Il resto va da sé, l’acqua bolle
chiama le foglie di rapa prima, quelle d’ulivo poi ed in ultimo le cime della
rapa. La cottura è al dente, nel senso che si deve addentare il risultato,
giacché la pasta fatta a mano ha il pregio di non essere omologabile o
standardizzabile e richiede attenzione ed ascolto. E poi il gusto è faccenda
tutta personale, pertanto ognuno decida per sé assumendosi la responsabilità
della scelta anche verso gli eventuali commensali. Tutto il risultato merita
una ripassata nella pentola per un finale che può variare dallo Zen rivolo
d’olio, se è quello buono, sino al barocco piccante di peperoncino sminuzzato
sull’acciuga saltata in olio agliato.
Così ho fatto io e quando ho
messo tra i denti e nel palato l’esito di tutta la favola m’è venuta ‘na
lacrim’all’uocchie, e non era per il piccante, vi assicuro. Se capita lo stesso
a voi ripensate alla vostra di zia, o alla mamma, la nonna, la cugina, alle
costellazioni familiari che questi universi sono capaci di fare apparire.
E con la zia nel cuore, le foglie
nello stomaco, le meringhe sul palato mi sono lasciato invadere da un morbido
languore.
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