In occasione del III° COU COUS FEST tenutosi il 23 settembre scorso nella tana di Orso Guercio e Luna Secca, Lupogrgio ha partecipato con una ricetta fatta di parole. Il suo sapore si acoltava e non si ingoiava.
Provate anche voi.
Provate anche voi.
Cous cous
Cous
cous, cuscus. Mi piaci. Mi piace il suono che hai, il sapore buono della
baresità nella quale mi riconosco. cuscus, questoquesto. Mi piace il tuo colore
d’oro e sole. Sapore di calore d’estate di sud. E anche qui mi sento a casa. Mi
piace il tuo profumo ricco di spezie evocanti. Viatico verso orienti
sconosciuti, a me, ma desiderati. E così m’immagino di cavalcare il tappeto
volante dei minuscoli tuoi grani profumanti, verso Marrachesh o Casablanca o Il
Cairo o… Mi piace il tuo sapore, neutro e accogliente, materno. Una madre
perlinata e dorata che accoglie una prole di sapori ai quali restituisce gusto
e sentore. Uno per uno. Una per tutti. Mi piacciono le tue confezioni
ammiccanti dagli scaffali di vendita delle nostre urbe occidentali. Come delle
cartoline souvenir di paesi esotici. In genere semplici, naif, ma proprio per
questo ancor più accattivanti, ammalianti, invitanti. Quando ti raccolgo dalle
schiere militarmente ordinate di moderni scaffali è come se mi portassi a casa
quel pezzo di Asia minore o di Maghreb che riesco a sognare. O, per meglio
raccontare, è come se tu mi prendessi per mano per accompagnarmi lì da dove sei
arrivato. E se poi leggo sulla scatola che sei di Francia o d’Italia non
importa, è l’evocazione che mangerò, non la materia.
Come
tutte le cose di valore, quello vero, sei maiuscolo nel tuo essere minuscolo.
Un frammento di Storie, di Culture, di Passioni, che apre il portone dei loro
universi a chi ci vuole entrare. In ogni tua minuta perlina riverbera tutto
l’universo che ti appartiene. E mi piace pensare che “mi” appartiene. Mi
affascina immaginare le migliaia di migliaia di mani che ti hanno accarezzato,
incucciato, sgranato come un rosario laico e prosaico. Ecco cosa sei, una
preghiera da masticare, una orazione da ingoiare, una invocazione da digerire.
Le mani dicevo, mani di donna carnose e morbide, ma anche nervose e callose, ma
buone, capaci, come solo certe donne sanno essere. Quelle che se un uomo
l’incontra non dimentica. La donna e il cous cous. Nel mio profano e
occasionale incontro con la tua granosità c’è forse il desiderio di
accarezzarle quelle mani, ma questo è altro discorso fatto di desideri e
appetiti intimi, e ognuno ha i suoi.
E
poi suoni, le tue scatole di cartone per lo più grezzo, vibrano come come
maracas saporite, a scandire un ritmo lento e suadente e sudante. Un ritmo di
cos cous. Lento come la tua preparazione, quella vera, naturale, natale, non
quella precotta, globalizzata, occidentalizzata, snaturata. Perché il Tempo è
ingrediente curciale per te, il tuo sapore, il tuo profumo. Come tutte le cose
buone, ancora di più quelle buone che dischiudono labbra affamate, lo scorrere
naturale del tempo racchiude un valore insostituibile. E tu hai, meglio, vuoi
il tuo tempo, fatto di cura, attenzione, concentrazione, passione che solo se
donata sarà restituita. Ma questo chiunque abbia avuto a che fare con l’Amore
lo sa. Con le pentole e i loro calori, cogli ingredienti e le loro morbidezze.
Come una madre col figlio. Un’amante con la compagna. Maradona con il pallone.
E
non siamo ancora arrivati alla tavola, siamo ancora al petting preliminare, che
però già pregusta l’amplesso dei sapori che ne discende. È qui si gode.
Portare
alle labbra e poi accarezzare col palato, mordicchiare coi denti, lasciare
penetrare l’esofago e colmare lo stomaco del tuo gusto buono, ricco,
molteplice, morbido e delicato è un atto di puro piacere. Credo, anche se io
non ne sono capace, che rispetto vorrebbe che ti fosse dedicato tempo
altrettanto lento alla degustazione quanto quello occorrente alla preparazione
e non che finissi trangugiato come puro riempibocca. È la differenza che passa
tra una notte d’amore e una sveltina meretricia. Ma nonostante me lo dica e me
ne accorga, a tavola continuo a fare sveltine sognando notti di passione,
malato come sono di gastrimarchia. Ma questo è uno tra i tanti miei limiti.
Ritorno
a te cous cous, che ora sei in tavola, fumante, odorante, colorante. Ti guardo
e sogno i tuoi orizzonti, l’ombra delle tue palme, la carezza tiepida dei tuoi
scirocchi e con questo immaginare avvicino le mie labbra ai tuoi grani oramai
gonfi di liquidi amorevolmente curati, mi lascio prendere dai tuoi racconti.
Ora mi parli di terre arse dal sole coi suoi frutti sapidi e colorati, e poi
cambia il paesaggio e il tuo amalgama odora e sapora di mari, vicini e lontani,
di salsedine e salmastre avventure. Ancora eccoti addolcito dalle insistenze
zuccherine degli acini appassiti a solleoni sudosi, inframmezzati da
sgranocchie essiccate.
Un
arcobaleno, una deflagrazione di sapori che solo tu sai contenere e restituire
con tanto amore e gentilezza e al tempo stesso con risolutezza. Mosaico di
odori che, come vetrate gotiche, rifrangono vibrazioni multicolori attivando il
segnale d’estasi al cervello. Questo sei tu cous cous per me. Per questo ti
cerco, ti preparo, ti accudisco, come posso, senza vanaglorie o ambizioni,
soddisfatto anche solo dal saperti con me, nella mia dispensa reale e
dell’anima, per nutrirmi, ogni volta che ne ho desiderio, della tua infinita minuscolità.
Mi piaci.