Ricordi pesanti
La vista di un grande camion carico d’un enorme blocco di
pietra che supero veloce con la macchina, ha aperto una scansia nella mia
credenza dei ricordi. Si è riaccesa vivida l’immagine e tutto quello che ne
segue, della strada bianca e polverosa che accarezzava il muro di cinta di quel
luogo dell’anima che è “la villa-di-trani”. La casa dei nonni che ha ospitato
le mie stagioni di giochi, scoperte ed esperienze. Nei suoi pressi c’erano, e
ci sono ancora purtroppo abbandonate, grandi voragini abbacinanti di pietra
bianchissima screziata di venature rugginose, Scrigni generosi della preziosa
Pietra di Trani. Oggetto del desiderio di artisti, progettisti, marmisti,
tombisti. Da queste caverne a cielo aperto fuoriuscivano dei grandi camion, enormi
per me allora, mediocri oggi, paragonati agli elefantiaci carrozzoni
mutlicolorati e luminescenti a 10, 12 o 16 ruote che calpestano i nostri
asfalti. Quelli della mia infanzia erano cigolanti carrette che trascinavano a
fatica un fardello enorme di pietra appena sbozzata, giusto il necessario per
entrare nel cassone, di cui deformavano le sponde. Questi muli di ferro e
gasolio ripetevano decine di volte il percorso tra le cave e le marmerie dove
il pesante e prezioso carico veniva rifinito, affettato e lucidato pronto per
trasformarsi in pavimento, opera d’arte o tomba. Il loro passaggio davanti allo
schermo del monitor dei miei ricordi che è il cancello verde della villa,
delimitato da due grandi colonne di tufo terminate con grandi vasi da cui emergevano
spinosissime e guardiane foglie di agave, questo passaggio dicevo, era
preannunciato e soprattutto seguito da una meravigliosa nuvola di bianchissima
povere, traccia che la strada, anch’essa contaminata dal contenuto caveoso,
rilasciava come memoria della fatica che sopportava nell’accogliere tanto
passaggio. Ed io lì, dietro le sbarre del cancello, spesso profumato di vernice
fresca che il nonno, e da grandicello io con lui, ripassava ad ogni stagione, a
guardare lo spettacolo, incurante della cura materna e nonnerna che mi
gridavano di stare lontano dalla polvere. Tutto era immerso nel biancore di
estati lunghissime in cui anche questo usuale e minimale avvenimento aveva
spessore. Mi ricordo l’impasto che le briciole di strada formavano con la mia
saliva, il caldo senza scampo che accoglieva il piccolo me, il grande camion,
la accogliente villa. E il vuoto precedente e seguente.
A volte seguivo le loro tracce, a bordo di improbabili e per
questo meravigliose biciclette, tanto alte per me allora che le pedalavo di
traverso, infilando la mia gambetta sottile tra l’asse orizzontale della sella
e quello obliquo dei pedali in una andatura buffa ma efficace. Me ne tenevo a
distanza per non ingoiare troppa polvere, tanto era impossibile perderli di
vista, bastava seguire la nuvola bianca. E così finivo per avvicinarmi, prima,
e addentrarmi poi, nella cava. Un luogo magico, da percorrere con massima
attenzione, rispettandola, misurando i passi per non scivolare lungo dirupi
alti e lisci da vertigine. Era un atto temerario, una di quelle sfide che ti
fanno crescere. Un luogo proibito e vietato da esplorare. Ci andavo
all’imbrunire, alla fine dell’orario di lavoro, quando era muto e svuotato del
fare. Scendevo a rotta di collo lungo le sconnessissime vie d’accesso, fatte
per le grandi ruote dei camion, non certo per le gomme, spesso sgonfie dei miei
bicicli, per giunta sempre con pochissima capacità frenante. Andavo a guardare
le enormi gru rosso ruggine che tiravano su i blocchi di pietra, grandi animali
pre-post-istorici, tenuti in equilibrio da tiranti in acciaio tesi come corde
di chitarra. Andavo a guardare le enormi fiancate che strapiombavano dal
livello strada sino a venti o trenta metri in basso segnate dalle decorazioni
parallele dei segni che le punte dei martelloni pneumatici lasciavano sulla
superficie. Andavo a sguazzare nel fango arancio che sempre la cava conteneva
nella parte più bassa, residuo di pioggia e di acqua necessaria alle
lavorazioni dei marmi. Isole al contrario, in cui l’acqua melmosa era circondata
dal lago disidratato e spaccato di una crosta che se ne veniva a pezzi tra le
mani, tingendole di ocra rugginoso.
Ritornare alla fine ad una luce meno abbacinante ed a un
orizzonte più esteso comportava molta fatica, ripercorrere al contrario le
“discese ardite” era cosa non da poco che compivo sudando ancora di più le mie
minuscole canottiere bianco-rigatine, un indumento che mi commuove, perso nella
memoria mia e di tanti di noi. A volte questi viaggi nell’inferno magico e
vicino li percorrevo in compagnia, mio fratello, cugine e cugine, zii
sufficientemente giovani e trasgressivi, piccole tribù in movimento alla
ricerca di scoperte e sorprese.
Oggi mi chiedo perché così spesso mi intrufolo in questi
meandri di memoria, cosa cerco, cosa mi spinge. Non è solo sapore di nostalgia,
voglia di tornare indietro, no, c’è qualcosa d’altro. Lo vidi la prima volta
nella mia prima esperienza di analisi, quando la terapista (disdegnata allora,
più che mai riscoperta oggi) mi portò verso quei luoghi per riassaporarne il
gusto buono e me li presentò come il serbatoio di serenità e benessere a cui
attingere per l’equilibrio dell’oggi.
Di questa grande riserva di carburante pacificante non posso
che ringraziare i miei genitori, la loro semplicità mai vissuta come privativa,
ma come naturale e arricchente.
Ci vuole tempo e lavoro perché queste sensazioni emergano e
perché se ne senta tutto il valore, ma prima o poi succede e spero che accada
questo anche nell’anima bella di mia figlia. Anche per questo le sono padre.