giovedì 15 marzo 2012

NUVOLE
Guardate il cielo, le sue nuvole ci parlano.

Le vedo lì in alto e loro vedono me, ma non solo me, da lassù possono in solo colpo d’occhio (ma poi come sarà l’occhio della nuvola) vedere tutto di noi qui giù. E vedono anche dentro di noi. Io mi sento scrutato nell’anima da quelle presenze leggere, veloci a volte, immobili e ingombranti altre volte. Sono loro il cielo, il loro esserci o non esserci lo definisce, un cielo di giorno è azzurro-limpido, di notte blu-nero perchè “senza nuvole”. Appunto, senza di loro.
In questi giorni di rincorrersi leggero e fugace di luminose presenze impalpabili, non posso fare a meno di pensare a loro. Gli indiani americani Oglala chiamano questo mese “la luna degli accecati dalla neve”, io il nostro marzo lo chiamerei “il tempo delle nuvole veloci”. Loro, popolo di alte e fredde terre, erano immersi nelle nevi che il sole già primaverile rendeva accecante, noi, terreni di coste salmastre, siamo invasi dalle danze di Maestrali e Scirocchi, dai capitomboli di Libecci e Grecali e al loro ritmo danzano le belle nuvole che annunciano primavera di fiori e profumi.
Lo so il cielo di città è piccolo, soffocato, ortogonalizzato, ma loro lì in alto si fanno vedere lo stesso, anzi dietro le sagome di brutte architetture appaiono e scompaiono nel nascondino più alto e giocoso che si possa immaginare. E poi a noi costieri fortunati basta andare sul mare per lasciare che l’orizzonte ci inondi di grandezza, e con lui le sue nuvole. Alzare gli occhi in questi giorni è come assistere ad un continuo, instancabile spettacolo teatrale. E che regista! Luci, ombre, forme, colori, tempi, profumi e suoni a volte, una coreografia ed una scenografia che nessun’autore potrebbe immaginare più giusta.
Il solo vederle nel cielo mi fa sentire più leggero, lo scatto d’occhi che impongono col loro mutare è vitale per i miei sensi. Infantilmente cerco a volte forme riconoscibili, parvenze di concretezza che immediatamente scompare, per fortuna. Perché loro lassù non hanno bisogno del nostro bisogno di definire, riconoscere, delimitare, loro sono senza forma, almeno come noi la riconosciamo, hanno la loro essenza che ci potrebbe molto insegnare se solo riuscissimo a coglierla, senza pensare a quanti millimetri  di pioggia (sana, bella, fresca, madre) scaricheranno sulle nostre teste sempre troppo basse.
La mia testa è lì, a volte, tra le nuvole, beatamente in alto, anche se poi sopra di me c’è n’è sempre un’altra di nuvola che, ballerina, si beffa della mia presenza. E lì respiro aria pulita, voglia di vivere, desiderio di gioire, e mi lascio andare in questa ebbrezza ariosa e ventosa, leggero come loro.
Poi a volte sono loro che entrano, leggere ma prepotenti, nella mia testa e fanno ombra al mio pensare, lo rendono opaco e uggioso, le sento girovagare tra le volute del mio grigiore. E allora le lascio stare, non le scaccio, mi lascio invadere dalla loro nuvolosità, lascio che scarichino la loro pioggia salutare perché portatrice di nuove gemme di vita.
Mi affascina quel loro contorno sfumato, il paesaggio da miopi che disegnano e che anche quando si stagliano su cieli tersi, mostrano chiaramente la loro poca voglia di essere definite, preferiscono l’evanescenza e in questo forse un po’ mi assomigliano.
Le guardo, sempre, o almeno tutte le volte che posso, scatto in continuazione con la mia fotocamera dell’anima immagini da conservare che, come le nuvole, scompaiono nella forma per restare, forse, nell’essenza.
HAUG!

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