giovedì 19 dicembre 2013

PENSIERI LIEVI
IN PUNTA DI MATITA
In punta di matita


Nella punta di una matita ci sono tante cose. Le ho viste chiaramente l’altra mattina mentre corricchiando ne ho incrociata una per terra sull’asfalto, abbandonata. Quel legnetto appuntito, che tante volte ho tenuto tra le dita, mi ha aperto una finestra nella mente dalla quale ha iniziato a circolare una bella brezza creativa. Il pensiero è così volato leggermente a tutti i possibili disegni che quello strumento leggero poteva esprimere, invece di giacere lì senza vita. Sentendomi guardato da lei per terra ho capito che ogni matita ha una vita propria. Che l’anima grafitica di quello stilo legnoso contiene già tutti i disegni che poi lascia uscire. E non solo disegni, tratti di grafite continui e sinuosi che cercano di esprimere immagini, pensieri, sogni, desideri. Ma anche le parole, quelle sussurrate, che il grigio della matita raccontano.
Immagino che in ogni matita siano contenute già tutte queste cose, e che la mano che le guida in realtà sia da essa guidata. Immagino un rovesciamento della nostra visione antropocentrica. Credo che anche quella matita persa per terra contenesse disegni e parole possibili. Solo che nessuno le potrà liberare. È come se quella e le altre sue sorelle abbiano un’anima simile, se non superiore, alla nostra, capace di emozionarsi, di immaginare, di parlare. Dobbiamo avere rispetto per tanta vita. Dobbiamo provare a non pensarci unici fattori della nostra realtà, ma provare a spostarci dal centro dell’universo e vivere le sue periferie. Luoghi magici dove anche la grafite fredda e inerte di una matita può contenere linfa vitale indispensabile alla nostra, di vita.
Immaginate quanti rebus e quante parole crociate ha nella sua memoria. Perché la matita, con il suo segno cancellabile, è l’arma preferita degli enigmisti. È strumento che supporta il dubbio, conforta l’errore e concede sbagli. Per questo è preferita, se poi indossa il cappellino di gomma auto censorio è il massimo. Bisognerebbe, quando in preda allo sconforto si abbandona anche l’ultima speranza di colmare il Bartezzaghi, riuscire a leggere nel codice grigio e freddo della matita che impugniamo per trovarci la risoluzione. Bisognerebbe, quando mettiamo in colonna cifre incerte per capire come e dove abbiamo disperso i nostri euri, essere in grado di scorgere nella sua anima minerale la risoluzione alle nostre scarse economie. Per non parlare poi del suo utilizzo principe: il disegno. Amore per alcuni, odio per molti, perché non è mai come lo si vorrebbe. Provate a mettervi di fronte ad un foglio bianco con la matita in mano e subito sentirete quel gelo che ghiaccia ogni muscolo dell’arto e che congela ogni residua sinapsi. Eppure lei, la matita sa. Conosce il percorso verso il capolavoro, ma anche solo verso l’onesto e piacevole disegnino che ci aspetteremmo. Ma se non siamo capaci di lasciarla andare la matita non ci porta. Lei non guida chi oppone resistenza, non suggerisce a chi non l’ascolta, anzi si imbizzarrisce, s’impenna o s’impunta fermando ogni tentativo e lasciando il foglio drammaticamente bianco o, peggio, inesorabilmente sporco d’un grigio incomprensibile ed anonimo. Vero è che anche un foglio bianco ne contiene di cose, ah! se le contiene.
Io la preferisco. Mi piace proprio la sua incertezza morbida e cancellabile, il suo segno indefinito, la sua traccia evanescente che lascia sempre spazio anche ad altro. Per questo credo che lei abbia una sua vita. Ci sono quelle belle eleganti, preziose e ci sono quelle semplici, anche banali. Ci sono quelle lunghe e slanciate, appuntite ed impettite, poi ci sono i mozziconi, spuntati o addirittura a doppia punta, giani di grafite pronti a segni in avanti e tracce all’indietro. Ma in tutte, proprio in tutte, penso ci sia il segreto della risposta. Sia essa un quindici verticale, che la radice cubica alla terza, tanto la forma precisa di un pupilla, quanto la posizione giusta della finestra sul prospetto o la forma più armoniosa di un seno nudo.
E allora la rivedo lì, la mia matita persa, quella che ho lasciato per terra senza raccogliere tutti i segreti che aveva nell’anima, imbecillemente preso dal mio sapere incapace di ascoltare quello che mi voleva dire.
Sono tornato, ma non c’era più. O qualcuno più sensibile di me ha approfittato dell’occasione portandosela a casa o il peso crudele d’un copertone in corsa ha ridotto in polvere la sua punta aguzza e sapiente, e con lei tutto il suo sapere.

mercoledì 24 luglio 2013

DIGRANO
DEDICATO AI CUMPARI CILENTANI
E A TUTTI I CUMPARAGGI POSSIBILI.


Di grano
Di spighe gravide
di chicchi e lacrime

Di terra
Di bosco vivo
di tronchi e anime

Di paglia
Di aia accesa
di merda e oro

Di suono
Di danza sanguigna
di tammorra e vino

Di forza
Di radici profonde
di terra e anima

Di dolcezza
Di aria fresca
di occhi e cielo

Di abbracci
Di mani sudate
di amore e vento

Di silenzio
Di parole lente
di sapere e sapore


Di tutto questo ho goduto
Dal mare alla montagna
nomade di tribù lontane
nell’incrocio dei percorsi
che intrecciano i cuori.


Cumpà manlio

23luglio2013



giovedì 7 marzo 2013

è primavera.


“È primavera”. Un sussurro leggero, proprio come le prime folate marzoline, mi arrivava ogni volta che uscivo dal portone. Dapprima non capivo da dove provenisse e poi, guardando in là verso sud l’ho visto. Bianco, bianchissimo e leggero, su un fondale verde intenso. È l’albero di mandorlo che si intravvede oltre il muretto che chiude la strada. Il verde dello sfondo sono gli alberi di pino che ornano gli spartitraffico di un’altra strada. Il solito perpendicolo di asfalti che segnano i nostri passi urbani. Eppure in tanto grigio petroleoso spiccava lui. Immacolato, baldanzoso e allegro. Il suo candore è il segnale, per me cittadino, della magia che la nuova stagione porta con sé. Direi che i primi sensi che percepiscono il cambio di stagione sono il tatto per l’effetto dei venticelli sulla pelle e l’olfatto per il profumo che lei porta con sé. Ma quando mi arriva alla vista, quando anche dagli occhi i segnali raggiungono il mio cervello allora il cerchio si chiude, l’incantesimo scocca. E così è con il mandorlo resistente. Già perché tra asfalto, terra così battuta che ben poco conserva della naturale morbidezza e cemento, vederlo ancora lì è un gran bel segnale. Me lo ricordo quando il mio Milo mi portava a spasso per quei percorsi e mi obbligava all’incontro rivelatore. Ora Milo non c’è più e il percorso non lo pratico, ma lui, l’albero, mi vede e io vedo lui. E ieri gli sono andato incontro. Mi sono fermato sotto la sua chioma incandescente di bianco, appena mossa dal vento da parere viva. Ma poi è viva! Intorno e su di lui una danza meravigliosa di api nella loro giostra pollinofora. Grigio il tronco, bianchi i petali, azzurro il cielo. Acquerello di primavera in linfa e materia. L’incanto provocato dalla visione mi ha spostato in un’altra dimensione, una bolla spazio temporale al ritmo lentissimo della natura. Immagino che dovessi parere almeno strano lì sotto imbambolato nel mezzo di una città al margine di una strada a faccia in su. Ogni tanto ho avvicinato il naso per ascoltare il profumo dei fiori, l’odore della primavera. Che bello! Le api leggiadre (ho capito finalmente il significato vero di questo aggettivo) danzavano da una corolla all’altra. Mi pareva di essere con loro in groppa alle loro morbide spallucce, alla ricerca del profumo più profumato e del colore più colorato. Alcune riflessioni le ho fatte dopo, quando ho salpato le ancore da questo porto di beatitudine inaspettata a cui ero approdato. Mentre ero là, ero là e basta. L’ho percepito quando mi sono smosso dall’incantesimo. Ma prima ho seguito l’impulso e l’ho abbracciato. Ho stretto il tronco rugoso e graffioso, l’ho tenuto così per un po’. Ho anche poggiato la guancia sulla sua pelle così materica e concreta. E se prima dovevo parere strambo, mò certamente sembravo pazzo. Beato me. Alzavo gli occhi e vedevo tremolare i petali scossi appena dal venticello di questo principio di marzo, annuncio di primavera. Mi sono distaccato, ho continuato a guardarlo mentre sentivo tutta la leggerezza del momento pervadermi e ho visto un petalo volare via. Invece no. Era una farfallina, da una foglia al fiore.

martedì 5 marzo 2013

OLTRE IL GIARDINO
Questo il titolo della mostra di foto e video
su un pezzo della mia, nostra storia e vita.
Daniele Trevisi ha il merito di non demordere. E io l'ho abbracciato.

All’accampamento arrivavo a cavallo. Non era di razza. Senza parafanghi, con la catena sempre un po’ lenta e con l’apparato frenante in evidente affanno. Però ci ero affezionato e andava. La poggiavo dietro una panchina o ad un albero e mi muovevo alla ricerca della mia tribù. La cercavo tra le tante che si accampavano lì. Nel cuore della città, nel cuore di ognuno di noi.
C’era la tribù degli “sconvolti”, quella degli “elleci”, “la quarta”, “ipunk”, “gliao” e dietro l’angolo gli “emmellesse”. Amici-nemici giurati. Col tempo alcuni gruppi mutarono, altri si mescolarono. Ci furono i “regghe”, gli sconvolti si trasformarono ne “itossici”. Al fuoco indiano avevamo sostituito l’acqua urbana di una fontana sempre spenta, la cui vasca era mare e cerchio per cerimonie di una religiosità tanto stramba da essere creduta. Ogni tribù aveva i suoi rituali, le sue uniformi, le sue stagioni.
Io arrivavo dall’altra parte del fiume. Di ferro e traversine. La mia, la nostra, era la tribù  dei “poggiofranchi”, enclave rossa e resistente in territorio nero e nemico. Un avamposto di anarchie, fumi, politiche e parole che si muoveva in branco. E il punto di massimo incontro era sempre l’accampamento del Giardino. Tutti, diversi e divisi, fratelli e nemici avevamo l’orgoglio di “essere-del-giardino”. Dove il verbo all’infinito indica un’appartenenza vera. Dal Giardino partivano i segnali per tutte le tribù. Chiamate a raccolta alle quali nessuno si esimeva, perché la partecipazione era una esperienza viva alla quale tutti rispondevamo. Sia che si trattasse di azioni di passione politica, che di desiderio d’evasione. Tanto di adunate assolate su spiagge liberate che riunioni affumicate in tuguri politicizzati.
E io non ero un capo, piuttosto un pari tra pari, come tanti di noi. C’erano i capi, e lo sapevamo, eppure tutti accettavamo un sereno assoggettamento sapendo che però poteva tramutarsi in diffidenza e contrapposizione, sino al conflitto. Per poi rientrare nel panorama multicolorato e multipensante del Giardino. E anche se non ero un capo ho sperimentato la fratellanza che era legge maestra nell’accampamento. Fu quando agii l’ennesimo esproprio proletario in libreria, per assicurarmi il libro sui fatti di Bologna del settantasette. Altre tribù, altre libertà. Colto in flagrante da un solerte e spaventatissimo responsabile, fui bloccato col libro nelle mutande e trasferito in questura. Solo che la libreria era troppo vicina al Giardino perché la cosa passasse inosservata. Alla mia uscita in mezzo ad una minuta pattuglia di PiEsse trovai un fiume di compagni agitati che gridavano la mia liberazione. Toni minacciosi che in quei giorni lasciavano presagire un passaggio all’atto immediato. Tanta solidale partecipazione meravigliò e spaventò anche me, non capo e non troppo avvezzo a passeggiate in volante a sirene spiegate. Così in questura, dopo foto, impronte e generalità mi affrettai a negare ogni appartenenza politica, cercando di dirottare il mio esproprio verso un atto inconsulto di giovane squattrinato. Fattostà che il ringhiare dei miei compagni ebbe il suo esito e l’intervento immediato del legale della libreria scagionante, mi liberò dalla sicura cella verso l’abbraccio caloroso dell’accampamento a cui resi grazie.
Piccole storie che fanno Storia. La mia. In quell’accampamento mi sentivo sempre a casa, accolto e difeso, anche da chi non conoscevo, perchè appartenente alla stessa tribù. Ci andavo per parlare, ascoltare, giocare, fumare, passeggiare, sedere, organizzare, lottare, piangere, ridere. Vivere.
E oggi dopo tante lune, molte stagioni e infinite tribù mi sento ancora “uno-del-giardino”. Lo sa bene mia figlia alla quale recito i miei mantra di appartenenza, incurante dei suoi sbuffi. Però vedo che più spesso mi ascolta, perché è stata una bella vita, una bella età. Una fonte alla quale mi sono abbeverato a pieni sorsi per arrivare fino ad oggi, sano,  salvo e con la voglia di vivere e giocare di allora. Spero per lei e tanti come lei che ritrovino il loro accampamento, che riconoscano la loro tribù, che la sappiamo amare e anche odiare. Comunque la vivano. Che abbiano, come noi, la loro meglio gioventù.

martedì 29 gennaio 2013


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Cime di rape tra foglie d’ulivo

Dovete avere la zia, la cui nascita ventennale, in quel ventennio lì, ha virato il cattolico Anna nel marziale Imperia.
Dovete avere questa zia, le cui meringhe alle noci sono la più attesa delle comete natalizie, capaci di illuminare la via del gusto verso il bambinello che è nella nostra culla più intima.
È lei, ventennale ed epifanica, che mi ha insegnato come. In un pomeriggio, appena doppiato il capo di fine d’anno, quando ancora ci si scambia doni e affetti. Così tra le chiacchiere che accompagnano la presa della meringa è venuto alla bocca il parlare di pasta fatta in casa con le mani proprie. Lei, la zia, è donna di parole e di fatti e, nel mentre ascoltava il mio racconto di pastaio novello, tutto preso dalla sorpresa di riuscire ad arrotolare cilindretti di pasta intorno al ferretto benedetto (proviene da luoghi santi) o di vedere spuntare abbozzi di orecchiette dal coltello appena strascinato sul legno della madia, lei accennava, sorniona ed invitante, al suo formato di pasta ideale all’accoppiamento con la nostrale prelibatezza nota col nome di cime di rape.
Sotto gli occhi compiaciuti e complici del marito suo, zio mio, Lillino poi maturato Nicola, mi spiegava, serena e sicura, che questa sua trovata rendeva alle rape maggiore gloria che le pur famose, ma per noi abusate, orecchiette. Ignorando, o forse no, di lanciare una bomba al fulmicotone contro il baluardo, la roccaforte della nostra baresità gastronomica, la zia raccontava che per lei con le rape non più orecchiette, la cui concava rugosità meglio si presta ad intingoli sugosi e raguosi, bensì “foglie d’ulivo”, disegno di pasta la cui forma aperta meglio abbraccia la foglia e il suo verde sapore.
Il mio sguardo di curiosa meraviglia è stato il detonatore per la sua esplosione di concretezza. Dalle parole ai fatti e, continuando a parlarmi ed ammaliarmi mi conduceva alla sua cucina bella e calorosa, mentre io, pasciuto topolino, seguivo la mia pifferaia magica. Qui, come nelle belle cucine d’una volta e qualcuna anche di oggi, un bel tavoliere è sempre a portata di mani operose e su questo tavolo operatorio stava per svelarmi la magia.
Con poche, all’apparenza noncuranti mosse, collaborata dallo zio-marito, assistente e controllante, ha impastato poca semola e farina con l’acqua calda. Le dosi precise sono: semola rimacinata, un tot; farina bianca, meno di un tot e acqua calda di rubinetto qubbì. In men che non si dica e non si veda, il vulcanetto giallo semola si è trasformato in pastella melmosa per poi assumere le sembianze di pallotta morbido-elastica, da cui convertire uno strappo nel serpentello classico della pasta fatta in casa a mano.
Mentre le carezze rotolanti delle sue mani aduse aggiungevano centimetri alla lunghezza del cilindretto, riducendone lo spessore, lei proseguiva l’argomentazione di cui prima e della quale stava per darmene riprova tangibile e gustabile. Con un coltello, magicamente comparsole tra le mani, ha iniziato la chirurgia, sotto gli occhi curiosi del nipote, io, e soddisfatto del marito lillino-nicola.
E qui c’è il trucco, la sapiente prestidigitazione. Il taglio, la cesura, il colpo di bisturi che ne stacca lo gnocchetto bastante, và fatto in obliquo. La lama deve tagliare “di sguincio” il serpentello, cosicché si abbia tra le dita un piccolo rombetto che va strascinato delicatamente, avendo cura di fermarne la parte superiore col dito, aldilà della lama del coltello, srotololando il resto.
L’effetto è sorprendente. Il rombo-cilindroide si trasforma in una fogliolina rugosa dai lati appena arrotolati e dai pizzetti pizzuti. Se avete in mente una foglia d’ulivo caduta per terra, perciò appena secca, avete visualizzato il risultato. Quella è verde argento, questa giallo paglino. Alla vista di tanta evoluzione appare chiaro, e la zia lo sapeva, che le parole non sarebbero bastate mai. Inoltre la naturalezza dei suoi gesti, rendeva il tutto ancora più estatico. Nonostante lei si schernisse per il risulatato a suo dire insoddisfacente per l’eccesso di umidità dell’impasto dovuto alla fretta, io ero colto da folgorazione. Dovevo provare subito. Atto compulsivo, lo so e me lo coccolo.
Salutavo i caldi parenti e già pregustavo il rientro verso la prova provata di tanta acquolina. Rincasavo con le meringhe tra le mani e le foglie d’ulivo negli occhi. Una volta richiusomi la porta domestica alle spalle il passaggio dal pensiero all’azione è stato naturale. Cercando di ripetere il film appena visto, ho impastato ed allungato il rametto di morbida pasta per poi accingermi alla fase chirurgica che è prodromica all’esito pasto-ulivoso.
Non posso non dire che quasi la prima metà del panetto se n’è andato in prove fallimentari. Strappi, strisci, sfilacci e pallottoline, ma di foglie d’ulivo neanche l’ombra. Poi, a poco a poco, l’ulivo ha iniziato a fogliare e le prime forme ad ogiva allungata e appuntita sono comparse da sotto il coltello che cercavo di addomesticare. Riuscite le prime, le seconde, le terze, il resto è venuto da sé. A poco a poco l’altro tavoliere, quello dell’asciugatura, s’è colmato di foglioline come cadute dalla chioma di un albero giallo semola. Le ho accarezzate e le ho lasciate riposare il necessario perché perdessero parte delle loro umidità per stare secche pronte al tuffo nella piscina d’acqua bollente che le resuscita a cottura.
A questo punto è tempo di rape.

Dovete avere l’orto. Quello privato, piccolo e intimo. Quello sociale, grande e accogliente. Quello monello, medio e generoso. Quello che volete purchè vi consenta l’atto della raccolta, l’unico capace di predisporre al sapore buono verso un dono ricevuto. E se l’orto non c’è, che almeno cime e foglie siano colte dal banco del mercato, quello vero dove vivono persone, esseri caldi, dove l’atto d’acquisto è accompagnato ancora da scambi calorosi di parole e occhiate, incontri e scontri, tutti atti vitali necessari, al contrario della ritualità mortifera, autistica e desolante del vagare da zombie nella corsie di supermercati che di “super” hanno solo l’alienazione.
Colle rape tra le mani, compite l’atto purificatore della pulitura, separando le cime dalle foglie che, se vi piacciono calerete nell’acqua prima delle suddette per poi condire tutto insieme, e se no ve le tenete da parte per una bella padellata di rape stufate con cui contornare la tavola o farcire pizze e calzoni.
Il resto va da sé, l’acqua bolle chiama le foglie di rapa prima, quelle d’ulivo poi ed in ultimo le cime della rapa. La cottura è al dente, nel senso che si deve addentare il risultato, giacché la pasta fatta a mano ha il pregio di non essere omologabile o standardizzabile e richiede attenzione ed ascolto. E poi il gusto è faccenda tutta personale, pertanto ognuno decida per sé assumendosi la responsabilità della scelta anche verso gli eventuali commensali. Tutto il risultato merita una ripassata nella pentola per un finale che può variare dallo Zen rivolo d’olio, se è quello buono, sino al barocco piccante di peperoncino sminuzzato sull’acciuga saltata in olio agliato.
Così ho fatto io e quando ho messo tra i denti e nel palato l’esito di tutta la favola m’è venuta ‘na lacrim’all’uocchie, e non era per il piccante, vi assicuro. Se capita lo stesso a voi ripensate alla vostra di zia, o alla mamma, la nonna, la cugina, alle costellazioni familiari che questi universi sono capaci di fare apparire.
E con la zia nel cuore, le foglie nello stomaco, le meringhe sul palato mi sono lasciato invadere da un morbido languore.

venerdì 21 dicembre 2012

AI
QUATTRO
VENTI

 


Ai quattro venti
Alle loro pari direzioni


All’alba dell’Est.
Scintilla di Fuoco.
Nunzia di luce,
GiallA di sole,
Fresca di Primavera.
Germoglio di vita,
Culla di spirito,
Chiara nel determinare.
Focolare dell’anima.
Lampo di saetta.
Occhi di fanciulla.
 
 Al mezzogiorno del Sud.
Materno di Acqua.
Grondante sudore,
Gravido di frutto,
Rosso di passioni.
Generoso nel donare.
Fluido di sangue,
Caldo d’Estate.
Battito di cuore.
Ventre di madre.

Al tramonto dell’Ovest.
Profumato di Terra.
Antro d’introspezione,
Saldo nelle radici,
Nero di riflessione,
Maturo di sensazioni.
Umido di Autunno,
Concreto di essenza,
Sicuro nel trattenere.
Parola di nonna.

alla notte del Nord.
Ventosa di aria.
Silente di trapasso,
Riflessa di mente,
Pura nel buio.
BiancA di neve,
Gelida d’Inverno.
Aperta nel ricevere.
Immobile montagna.
Profezia di megera.

 
 
Al loro eterno,
vitale ciclare.
Al nostro immanente
fragile stare.

Tra vita e vita
passando per morte.
Da luce a luce
movendo nel buio.
Dal nulla al nulla
cercando il tutto.

Nel cerchio
che tutto unisce
e tutti ci riunisce.


AHO MITAKUYE OSHIASYN

manlio epifania lupogrigio
nel solstizio d’inverno del 2012

venerdì 7 dicembre 2012

tutto fluisce
nell'anno che finisce
Attraversiamo insieme la frontiera di questo anno, passeggiando, mangiando, danzando, giocando, cantando. La tribù di Lupogrigio si mette in cammino verso questo bel cerchio per incontrare altre tribù, altre anime.