giovedì 7 marzo 2013

è primavera.


“È primavera”. Un sussurro leggero, proprio come le prime folate marzoline, mi arrivava ogni volta che uscivo dal portone. Dapprima non capivo da dove provenisse e poi, guardando in là verso sud l’ho visto. Bianco, bianchissimo e leggero, su un fondale verde intenso. È l’albero di mandorlo che si intravvede oltre il muretto che chiude la strada. Il verde dello sfondo sono gli alberi di pino che ornano gli spartitraffico di un’altra strada. Il solito perpendicolo di asfalti che segnano i nostri passi urbani. Eppure in tanto grigio petroleoso spiccava lui. Immacolato, baldanzoso e allegro. Il suo candore è il segnale, per me cittadino, della magia che la nuova stagione porta con sé. Direi che i primi sensi che percepiscono il cambio di stagione sono il tatto per l’effetto dei venticelli sulla pelle e l’olfatto per il profumo che lei porta con sé. Ma quando mi arriva alla vista, quando anche dagli occhi i segnali raggiungono il mio cervello allora il cerchio si chiude, l’incantesimo scocca. E così è con il mandorlo resistente. Già perché tra asfalto, terra così battuta che ben poco conserva della naturale morbidezza e cemento, vederlo ancora lì è un gran bel segnale. Me lo ricordo quando il mio Milo mi portava a spasso per quei percorsi e mi obbligava all’incontro rivelatore. Ora Milo non c’è più e il percorso non lo pratico, ma lui, l’albero, mi vede e io vedo lui. E ieri gli sono andato incontro. Mi sono fermato sotto la sua chioma incandescente di bianco, appena mossa dal vento da parere viva. Ma poi è viva! Intorno e su di lui una danza meravigliosa di api nella loro giostra pollinofora. Grigio il tronco, bianchi i petali, azzurro il cielo. Acquerello di primavera in linfa e materia. L’incanto provocato dalla visione mi ha spostato in un’altra dimensione, una bolla spazio temporale al ritmo lentissimo della natura. Immagino che dovessi parere almeno strano lì sotto imbambolato nel mezzo di una città al margine di una strada a faccia in su. Ogni tanto ho avvicinato il naso per ascoltare il profumo dei fiori, l’odore della primavera. Che bello! Le api leggiadre (ho capito finalmente il significato vero di questo aggettivo) danzavano da una corolla all’altra. Mi pareva di essere con loro in groppa alle loro morbide spallucce, alla ricerca del profumo più profumato e del colore più colorato. Alcune riflessioni le ho fatte dopo, quando ho salpato le ancore da questo porto di beatitudine inaspettata a cui ero approdato. Mentre ero là, ero là e basta. L’ho percepito quando mi sono smosso dall’incantesimo. Ma prima ho seguito l’impulso e l’ho abbracciato. Ho stretto il tronco rugoso e graffioso, l’ho tenuto così per un po’. Ho anche poggiato la guancia sulla sua pelle così materica e concreta. E se prima dovevo parere strambo, mò certamente sembravo pazzo. Beato me. Alzavo gli occhi e vedevo tremolare i petali scossi appena dal venticello di questo principio di marzo, annuncio di primavera. Mi sono distaccato, ho continuato a guardarlo mentre sentivo tutta la leggerezza del momento pervadermi e ho visto un petalo volare via. Invece no. Era una farfallina, da una foglia al fiore.

martedì 5 marzo 2013

OLTRE IL GIARDINO
Questo il titolo della mostra di foto e video
su un pezzo della mia, nostra storia e vita.
Daniele Trevisi ha il merito di non demordere. E io l'ho abbracciato.

All’accampamento arrivavo a cavallo. Non era di razza. Senza parafanghi, con la catena sempre un po’ lenta e con l’apparato frenante in evidente affanno. Però ci ero affezionato e andava. La poggiavo dietro una panchina o ad un albero e mi muovevo alla ricerca della mia tribù. La cercavo tra le tante che si accampavano lì. Nel cuore della città, nel cuore di ognuno di noi.
C’era la tribù degli “sconvolti”, quella degli “elleci”, “la quarta”, “ipunk”, “gliao” e dietro l’angolo gli “emmellesse”. Amici-nemici giurati. Col tempo alcuni gruppi mutarono, altri si mescolarono. Ci furono i “regghe”, gli sconvolti si trasformarono ne “itossici”. Al fuoco indiano avevamo sostituito l’acqua urbana di una fontana sempre spenta, la cui vasca era mare e cerchio per cerimonie di una religiosità tanto stramba da essere creduta. Ogni tribù aveva i suoi rituali, le sue uniformi, le sue stagioni.
Io arrivavo dall’altra parte del fiume. Di ferro e traversine. La mia, la nostra, era la tribù  dei “poggiofranchi”, enclave rossa e resistente in territorio nero e nemico. Un avamposto di anarchie, fumi, politiche e parole che si muoveva in branco. E il punto di massimo incontro era sempre l’accampamento del Giardino. Tutti, diversi e divisi, fratelli e nemici avevamo l’orgoglio di “essere-del-giardino”. Dove il verbo all’infinito indica un’appartenenza vera. Dal Giardino partivano i segnali per tutte le tribù. Chiamate a raccolta alle quali nessuno si esimeva, perché la partecipazione era una esperienza viva alla quale tutti rispondevamo. Sia che si trattasse di azioni di passione politica, che di desiderio d’evasione. Tanto di adunate assolate su spiagge liberate che riunioni affumicate in tuguri politicizzati.
E io non ero un capo, piuttosto un pari tra pari, come tanti di noi. C’erano i capi, e lo sapevamo, eppure tutti accettavamo un sereno assoggettamento sapendo che però poteva tramutarsi in diffidenza e contrapposizione, sino al conflitto. Per poi rientrare nel panorama multicolorato e multipensante del Giardino. E anche se non ero un capo ho sperimentato la fratellanza che era legge maestra nell’accampamento. Fu quando agii l’ennesimo esproprio proletario in libreria, per assicurarmi il libro sui fatti di Bologna del settantasette. Altre tribù, altre libertà. Colto in flagrante da un solerte e spaventatissimo responsabile, fui bloccato col libro nelle mutande e trasferito in questura. Solo che la libreria era troppo vicina al Giardino perché la cosa passasse inosservata. Alla mia uscita in mezzo ad una minuta pattuglia di PiEsse trovai un fiume di compagni agitati che gridavano la mia liberazione. Toni minacciosi che in quei giorni lasciavano presagire un passaggio all’atto immediato. Tanta solidale partecipazione meravigliò e spaventò anche me, non capo e non troppo avvezzo a passeggiate in volante a sirene spiegate. Così in questura, dopo foto, impronte e generalità mi affrettai a negare ogni appartenenza politica, cercando di dirottare il mio esproprio verso un atto inconsulto di giovane squattrinato. Fattostà che il ringhiare dei miei compagni ebbe il suo esito e l’intervento immediato del legale della libreria scagionante, mi liberò dalla sicura cella verso l’abbraccio caloroso dell’accampamento a cui resi grazie.
Piccole storie che fanno Storia. La mia. In quell’accampamento mi sentivo sempre a casa, accolto e difeso, anche da chi non conoscevo, perchè appartenente alla stessa tribù. Ci andavo per parlare, ascoltare, giocare, fumare, passeggiare, sedere, organizzare, lottare, piangere, ridere. Vivere.
E oggi dopo tante lune, molte stagioni e infinite tribù mi sento ancora “uno-del-giardino”. Lo sa bene mia figlia alla quale recito i miei mantra di appartenenza, incurante dei suoi sbuffi. Però vedo che più spesso mi ascolta, perché è stata una bella vita, una bella età. Una fonte alla quale mi sono abbeverato a pieni sorsi per arrivare fino ad oggi, sano,  salvo e con la voglia di vivere e giocare di allora. Spero per lei e tanti come lei che ritrovino il loro accampamento, che riconoscano la loro tribù, che la sappiamo amare e anche odiare. Comunque la vivano. Che abbiano, come noi, la loro meglio gioventù.